Banche italiane: per sopravvivere, dimezzare personale e sportelli. E basta con Bot e Btp

I mercati finanziari che credono poco nelle banche europee e meno in quelle italiane chiedono di vedere piani, progetti, innovazione, strategia, lungimiranza. Gli investitori pensano “perché devo credere …

I mercati finanziari che credono poco nelle banche europee e meno in quelle italiane chiedono di vedere piani, progetti, innovazione, strategia, lungimiranza. Gli investitori pensano “perché devo credere in te se non sei disposto a buttare a mare il tuo passato?”. 

Ripartiamo dalle quattro accuse che mercati finanziari e stampa internazionale lanciano alle banche italiane, ovvero:

a) brutta qualità del credito;

b) troppi titoli di Stato;

c) credito concesso in modo incomprensibile;

d) bassissima redditività attuale e prospettica, con poco (o nulla) fatto per recuperarla.

Ho detto qualche giorno fa (qui) che possiamo concordare o no, e molti da noi disapprovano la disapprovazione che arriva dai mercati.

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Ma se vogliamo convincere gli investitori del fatto che si possono fidare – e quindi possono comprare azioni delle banche italiane invece di venderle come fanno – dobbiamo rispondere con precisione a tutte le accuse.

Proviamo a vedere i singoli punti.

Personalmente credo sia corretto limitare i BTP nel portafoglio delle banche italiane. Sappiamo che può essere un problema per il debito governativo italiano, ma questo è tema da affrontare su altri autorevoli tavoli.

Non possiamo lasciar fare scempio degli istituti di credito del Paese per troppi BTP nei bilanci.

Ce ne sono per 415 miliardi, cioè poco meno del totale del capitale complessivo delle banche italiane (440 miliardi). Se il valore dei titoli di Stato scende del 10% sono dolori. Gli investitori stimano possa accadere, sia per una revisione del rischio sovrano Italia, sia per una ripresa dei tassi di interesse nominali, e basta un ritorno atteso di inflazione.

Senza contare che oggi i margini che si facevano quattro anni fa (il 4%, anche il 6% su investimenti anche relativamente brevi) sono sostanzialmente azzerati: non ne vale più la pena. Alleggerire è facile: basta lasciar scadere i titoli in portafoglio. Il Tesoro rimborsa e si sgonfiano attivi e passivi. Poi il Tesoro resta con il problema di collocare i propri titoli, ma questo per gli investitori è un problema del Tesoro.

E se una banca usa questa scusa per mantenere invariato lo stock di titoli di Stato, è segno di cattiva governance, perché il problema – per i mercati –  non è della banca ma del Tesoro.

Per nota: in Banca IFIS abbiamo avviato un programma che ha già ridotto i titoli di Stato in portafoglio. Tra un anno saranno molto meno del 10% del nostro patrimonio.

Meno semplice risolvere il tema dei crediti deteriorati. Bisognerebbe venderli a specialisti (per correttezza, ci siamo anche noi e ci saremo anche di più, ma non è questa la ragione che mi fa sostenere questa soluzione). Venderli significa metterli fuori dal perimetro dei problemi. Chi li compra ne fa un business, ovviamente. Ma chi li vende vedrà la condizione del proprio attivo migliorare in modo significativo. Sappiamo bene che c’è un mercato pronto a comprare, anche per centinaia di miliardi lordi.

Tuttavia le banche sono riluttanti a vendere perché i prezzi che gli acquirenti sono disposti a pagare sono ancora troppo bassi rispetto ai valori di carico. Non entro nel tema di chi ha ragione, dipende dai punti di vista e dalle specificità: ogni caso è diverso.

Qualche giorno fa Luigi Zingales (qui) ha sviluppato alcune proiezioni negative su ciò che si può ottenere dai crediti deteriorati italiani. Personalmente ritengo le sue valutazioni troppo severe (qui per il mio pensiero). Tuttavia, mi pare molto interessante la provocazione. Il Governatore della Banca d’Italia ha sostenuto, e con lui qualche giorno fa Giovanni Sabatini, direttore generale dell’ABI, la lobby delle banche, che i crediti deteriorati della peggiore qualità, le sofferenze, sono ben “coperte” da garanzie.

Sabatini si è lanciato in una difesa comprensibile, dato il ruolo, affermando che chi attacca la pagliuzza dei crediti deteriorati non vede la trave dei titoli livello 3 (illiquidi, con valori teorici illusori) di banche di altri paesi (Germania in primis). Tutte riflessioni fondate. Ma i mercati sono poco interessati. Noi pensiamo di aver ragione. I mercati pensano che ci sbagliamo, ci valutano malissimo e ci vendono.

Pensiamo all’alternativa: prendendo le eventuali perdite derivanti dalla vendita dei crediti deteriorati, le banche avrebbero, oltre al beneficio di potersi rilanciare sui mercati, anche il problema di coprire le eventuali perdite avessero maturato nel processo di cessione. Servirebbero, presumibilmente, aumenti di capitale.

Ora i mercati internazionali non sono disponibili a fare aumenti di capitale ulteriori, e lo vediamo, salvo, forse, richiedere un prezzo pesantissimo ai vecchi soci, che vedrebbero pressoché cancellata la loro presenza. Dura da digerire. Ma tenere in piedi situazioni troppo compromesse è una responsabilità per i Consigli di Amministrazione forse ancor più grande.

La variabile chiave qui è il tempo. Le buone nuove normative che dovrebbero aiutare la gestione dei crediti deteriorati sono interessanti ma siamo chiari: valgono solo per i nuovi finanziamenti. Non aiutano a smaltire il pregresso.

Ci fosse il tempo, si potrebbe forse provare a far “cambiare idea” ai mercati. I mercati stanno invece dicendo che il tempo è finito. E più ancora degli operatori è la vigilanza europea a pretendere fretta.

I mercati, non la vigilanza, possono forse cambiare idea in presenza di una valida ragione. E se non cambiano idea, il rischio del cortocircuito è ad un passo: la vigilanza vede le dinamiche dei mercati finanziari e potrebbe trasformare i valori di Borsa in richiesta di rettifiche ulteriori.

Il non detto è che se il valore di borsa è basso (oggi per certe banche addirittura al 10/20% del patrimonio netto) può essere perché gli attivi valgono molto meno di quanto sia scritto nei bilanci. Cioè avrebbe ragione il mercato. Altrimenti come si spiega?

La terza e quarta accusa (modo di fare credito incomprensibile; redditività scarsa e nessuna azione seria per recuperare) hanno una soluzione comune ed è una soluzione molto faticosa. Si tratta di ridisegnare l’offerta di credito e i servizi bancari per tenere conto della nuova domanda. La banca deve offrire al cliente servizi e prodotti che egli desideri acquistare.

I tempi della banca che ti vende ciò che serve al suo bilancio, senza guardare se fa bene o male al cliente, sono agli sgoccioli. E sul credito è naturale che c’è molto lavoro da fare. La posizione internazionale può essere eccessiva (fate fallire chiunque non stia in piedi, lo vuole la selezione darwiniana della specie, così libererete risorse per altre nuove imprese).

Ma lo è di più l’opposta tendenza a rifinanziare all’infinito le imprese zombie, vuoi perché queste si sentono forti senza esserlo (alcuni giungono a pensare che se la banca non li rifinanzia loro fanno serenamente default, e questo è un problema per la banca che quindi è sotto scacco e “deve” perciò continuare nel sostegno), vuoi perché molte banche non se la sentono di classificare a sofferenza e quindi valutare coerentemente posizioni verso soggetti che non ce la fanno più.

Ma la ragione è interna alla banca, e ha a che fare con la paura per il troppo accumularsi di credito deteriorato. Non è di certo per tenere in piedi un’impresa. E però qualche tempo dopo il problema esplode comunque, solo in modo più grave.

I mercati finanziari che credono poco nelle banche europee e meno in quelle italiane chiedono di vedere piani, progetti, innovazione, strategia, lungimiranza. Non vogliono più sentire che le banche italiane non sono disposte a mettere in gioco tutto quello che possono, ma proprio tutto, per garantirsi un futuro.

Tutto vuol dire essere disposti a cambiare ogni cosa, disfandosi di qualsiasi eredità arrivi dal passato o dal territorio o dal rispetto di comportamenti consolidati. In sintesi, una catarsi. Qualcosa di grande, in termini di sacrificio e generosità. Gli investitori pensano “perché devo credere in te se non sei disposto a buttare a mare il tuo passato?”.

Mi sono sentito dire “come facciamo con tutti gli sportelli, che rappresentano la nostra presenza sul territorio?”. Domanda errata. Non è colpa degli sportelli. É che è cambiata la domanda e in “banca” non ci vuole più andare nessuno, né tra i clienti né tra gli addetti.

Gli investitori vogliono sapere come le banche faranno soldi in un mercato totalmente nuovo in cui l’avvento del digitale e del fintech farà strage del modello di business tradizionale. Le banche italiane non stanno raccontando agli investitori come cambieranno tutto e come guadagneranno stabilmente nei prossimi anni, ma al massimo quanto credono di essere belle. E il futuro è una professione di fede.

Gli investitori scuotono il capo, perplessi, e reagiscono. Dal punto di vista dei mercati finanziari, vanno seguite le banche nord europee non tedesche, che hanno letteralmente smantellato la rete di sportelli passando all’online massivo. Costa, sia chiaro, in termini di investimento. Ma garantisce un futuro. E infatti le banche nord europee hanno fatto, relativamente, molto meglio in Borsa delle nostre.

C’è un interessante recentissimo lavoro di AT Kearney che prevede per il 2030 il dimezzamento degli sportelli in Europa. Ovviamente in Italia di più.

C’è una ricetta per recuperare redditività? Abbiamo una risposta ragionevolmente precisa alla domanda “che fare” che sia credibile per gli investitori?

Io continuo a pensare di sì.

Ma serve tempo. Per fortuna qui il tempo si compra; un po’ meno dalla nuova, penetrante vigilanza europea e molto di più tramite un processo di ricostruzione della credibilità dei progetti delle banche nei confronti dei mercati internazionali.

Che, ricordo, hanno poco tempo per approfondire e decidono in maniera a volte semplicistica. Hai una strategia? Innovi? Un piano credibile? Cosa farai tra cinque anni? Sei convincente? L’investitore compra la tua storia.

Sei timido nel cambiamento? Valorizzi la storia e il passato? Ti occupi del trade-off tra esuberi ovvi e strategia? Hai una governance ancora macchinosa o incomprensibile e non hai piani per correggerla? Ci sono rischi percepibili di conflitti di interesse? O così l’investitore crede di capire? L’investitore ti molla. Io credo che non possiamo permettercelo. Ma se qualcuno argomenta il contrario, lieto di prestare attenzione.

di Giovanni Bossi, CEO di Banca IFIS

fonte: LinkedIn

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