I miliardi di euro e di dollari che negli ultimi due decenni abbiamo fatto incassare alla Cina comprando i suoi prodotti a basso costo stanno tornando in Occidente. È con quei soldi che ricchissimi fondi di investimento e giganteschi colossi industriali si stanno presentando in Europa e in America per comprare, in contanti, squadre di calcio, infrastrutture, aziende.
Nel 2016 lo shopping cinese sta andando avanti a un ritmo pazzesco. Tra gennaio e maggio, secondo le rilevazioni della società di analisi dei mercati finanziari Dealogic, aziende e fondi cinesi hanno speso 111 miliardi di dollari per acquisti all’estero. In cinque mesi hanno superato i 107 miliardi spesi nell’intero 2015, che è stato poi l’anno record dello shopping cinese all’estero, e hanno già triplicato la spesa dei dodici mesi del 2014.
Ci sono buone probabilità che quest’anno per la prima volta la Cina superi gli Stati Uniti nella classifica mondiale dei paesi che più hanno investito in acquisizioni estere. Di questi acquisti, 70 miliardi sono avvenuti in Europa e 31 negli Stati Uniti. Dietro questo shopping frenetico c’è prima di tutto qualcosa che assomiglia molto a una fuga di capitali. La frenata dell’economia cinese sta facendo emergere molti dei suoi storici difetti irrisolti — come l’eccesso di debito, un mercato finanziario ancora rudimentale, la corruzione tipica dei sistemi non democratici — e questa stiuazione rende decisamente poco appetibile l’investimento in Cina. A questo si aggiungono le incertezze sulla solidità del renminbi: la banca americana Goldman Sachs ormai parla apertamente del rischio di rivedere nel giro di qualche settimana una nuova fase critica simile a quella avviata, nell’agosto dello scorso anno, dalla svalutazione secca dello yuan, che ha fatto fuggire mille miliardi di dollari di capitali cinesi all’estero.
Se chi ha grandi capitali in Cina ha voglia di portarli fuori dal paese, il fatto che sia in Europa che in America i capitali siano tutt’altro che abbondanti (e che chi li controlla, in questa fase incerta, non sembri affatto interessato a lanciarsi in grandi investimenti) fa delle economie occidentali una comoda terra di conquista per le imprese cinesi.
È in questo contesto che, lo scorso febbraio, il gigante cinese ChemChina, quello che nel 2015 si è comprato tutta Pirelli per 7 miliardi di euro, si è presentato con 43 miliardi di dollari a Basilea per comprarsi la svizzera Syngenta, una delle maggiori compagnie di agrofarmaci del mondo. L’operazione, che è la più grande acquisizione all’estero della storia per una società cinese, attende i via libera delle autorità regolatorie sia in Europa che negli Stati Uniti e dovrebbe concludersi entro la fine dell’anno. Le offerte dei cinesi sono molto spesso “indecenti”, a prezzi che nessun imprenditore americano o europeo si sognerebbe di pagare. Chi vende, quindi, è sempre ben lieto dell’insperato incasso.
Anche ai manager l’arrivo dei fondi cinesi raramente dispiace: solitamente i fondi di Pechino non sono azionisti invadenti, quello che vogliono è il controllo della società, non la gestione. Chi è più perplesso, solitamente, sono i governi. Quando ChemChina ha comprato Pirelli non ha incontrato significative resistenze politiche. Marco Tronchetti Provera, rimasto alla guida del gruppo, ha avvisato Matteo Renzi prima che l’operazione venisse annunciata. La reazione del presidente del Consiglio, ha raccontato il manager, è stata positiva.
Ma per i fondi cinesi le cose non vanno sempre così lisce. In queste settimane in Francia e Germania i governi si stanno organizzando per impedire che alcuni dei loro gioielli nazionali finiscano in mani poco gradite. Qualche giorno fa prima Sigmar Gabriel, ministro dell’Economia del governo Merkel, e poi il tedesco Günther Oettinger, commissario europeo per l’Economia e le società digitali, si sono mobilitati pubblicamente per chiedere che aziende tedesche, o almeno europee, facciano un’offerta alternativa per Kuka, gioiello della robotica industriale teutonica (i suoi robot “lavorano” anche nelle fabbriche di Fiat-Chrysler) nel mirino dei cinesi di Midea, che potrebbero prendere tutte le azioni sborsando 5 miliardi di euro.
Mentre in Francia, raccontava ieri il Figaro, il ministro dell’Economia Emmanuel Macron sta lavorando intensamente per arrivare a un compromesso con il fondo Jin Jianc, che sta preparando poco velatamente una scalata su AccorHotel, gioiello del turismo francese da 5,5 miliardi di fatturato nonché primo gruppo alberghiero mondiale.
L’idea è quella di proporre un accordo simile a quello trovato nel 2014 con Dongfeng, il gruppo che assieme al governo Hollande nel 2014 ha salvato Peugeot-Citroën: sì all’investimento cinese a patto che, grazie ad accordi di lunga durata, i soci stranieri accettino di avere la minoranza dei diritti di voto. Compromessi utili a rendere almeno un po’ meno amara la vendita dei gioielli nazionali a chi ha quei capitali che l’Europa non ha più.
Fonte: Avvenire