Decisione non unanime. Janet Yellen anticipa due aumenti entro la fine dell’anno (rispetto ai 4 previsti). Tagliate le previsioni sulla crescita. Inflazione in contrazione e Pil freddo a +2,2% per il 2016.
La Fed come ampiamente previsto ha lasciato fermi i tassi di interesse, rinviato a tempi migliori un possibile aumento dei tassi sui Fed Funds, che restano dunque ad un livello compreso fra lo 0,25% e lo 0,50%. Il primo ed ultimo rialzo dal 2008 era stato a dicembre. La decisione del FOMC, il comitato di politica monetaria della Fed, tuttavia, non è stata unanime, poiché Esther George, Presidente della Fed di Kansas City e rinomato falco in seno al Comittee, ha votato contro lo status quo ed a favore di un aumento dei tassi. La sua preferenza però era nota.
Nell’annunciare la decisione, lo statement della banca centrale statunitense parla di “crescita moderata” e di un’andamento dell’inflazione che, a dispetto dei recenti segni di vitalità, resta al di sotto del target di lungo termine della Fed. La Federal Reserve ha fornito oggi anche le previsioni aggiornate sull’economia a stelle e strisce, indicando per quest’anno un aumento del PIL del 2,2% in frenata rispetto al 2,4% indicato nelle previsioni di dicembre. Anche il tasso d’inflazione è stato tagliato all’1,2% dall’1,6% indicato a dicembre, sebbene venga confermata l’inflazione core all’1,6%. La disoccupazione invece è confermata al 4,7%. Sulla base di queste previsioni, la banca centrale ha ridotto a due il numero di rialzi dei tassi previsti nel 2016, mentre precedentemente se ne attendeva almeno quattro.
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La Federal Reserve ha lasciato i tassi di interesse invariati nella fascia compresa tra lo 0,25% e lo 0,50%. La banca centrale americana ha dunque deciso di optare per lo status quo in attesa di avere segnali più chiari sull’evoluzione delle prospettive dell’economia nazionale alla luce del rallentamento globale.
I membri del Fomc, il comitato di politica monetaria, hanno inoltre rivisto al ribasso le proiezioni sui tassi d’interesse nel 2016, 2017 e 2018, a conferma della grande prudenza con la quale la banca centrale intende normalizzare la sua politica monetaria. La media delle previsioni ora indica un tasso ufficiale dello 0,875% alla fine del 2016, il che comporta due soli rialzi di un quarto di punto contro i quattri previsti lo scorso dicembre. La decisione di lasciare invariati i Fed funds è stata presa quasi all’unanimità; un solo membro del Fomc su 10 ha votato contro e avrebbe optato per un rialzo di un quarto di punto.
La Fed ha anche tagliato le stime sulla crescita dell’anno in corso e non ha toccato neppure quelle sull’occupazione. Per il 2016, la Banca centrale attende una crescita del prodotto interno lordo al 2,2%, mentre a dicembre aveva previsto un rialzo del 2,4%.
Quest’anno il tasso di disoccupazione dovrebbe attestarsi al 4,7%, in linea con quanto previsto a dicembre.
La Fed ha alzato i tassi per la prima volta dopo nove anni lo scorso dicembre, portandoli a 0,25-0,50 per cento. Nella successiva riunione di gennaio ha invece lasciato invariati i Fed funds.
La politica monetaria della banca centrale più potente al mondo viene oggi tenuta sulle spine dai mercati. Ma, in realtà, la Federal Reserve è ostaggio soprattutto di un mercato, quello del dollaro. Certo, la Fed ufficialmente tiene le dovute distanze dalle valute. I suoi governatori, però, ammettono ormai apertamente di tenere sotto strettissima quanto rispettosa osservazione l’andamento del biglietto verde nella difficile impresa di capire se e quando alzare i tassi di interesse. Perché la spirale del suo rafforzamento è oggi più che mai ciò che complica i disegni di Janet Yellen di una graduale normalizzazione della politica monetaria. Una spirale tanto inevitabile quanto un po’ paradossale: basta la prospettiva – e talvolta la semplice percezione – di strette monetarie a sospingere la divisa e questo a sua volta è sufficente a frenare la mano della Fed prima ancora di potersi davvero impegnare per un intervento, visto l’impatto negativo che minaccia di avere su una ripresa pur sempre debole. La “strana danza” tra Fed e dollaro, l’ha battezzata l’economista Joseph Gagnon, ex alto funzionario della Fed ora al Peterson Institute.
E il rischio di nuove tensioni e scalate del dollaro rimane nei fatti, non solo nella percezione. L’ultima, e più aggressiva del previsto, manovra a base di tassi negativi e rilanciato Qe da parte della Banca centrale europea ha visto dollaro e euro reagire con un frenetico rincorrersi, con avanzate e retromarce simbolo della confusione e volatilità che giorno sì e l’altro pure regna tra gli investitori. Guardando a un orizzonte più ampio, tuttavia, la divisa americana è reduce da un biennio di generali rialzi su un paniere composto dalle maggiori divise – del 9% nel 2015 – e da gennaio al netto di sbalzi e melodrammi è cambiata di poco. Sull’euro è sì in calo di circa il 6% in dodici mesi, ma dopo una marcia a tappe forzate di due anni. Adesso la confermata divergenza di politiche monetarie tra Stati Uniti da una parte e Europa e Giappone dall’altra, sommata con le migliori condizioni rispetto ad altri paesi sviluppati della ripresa statunitense, garantisce un sostegno di fondo.
La schiarita economica ha fatto tornare di getto anche una maggior propensione al rischio sui mercati. Wall Street è reduce da quattro settimane di guadagni, i titoli bancari hanno riconquistato terreno dopo essere stati penalizzati dai tassi a zero, i treasuries decennali, beni rifugio per eccellenza, hanno ripiegato verso rendimenti del 2% per la prima volta da gennaio.
Tutto questo potrebbe a prima vista facilitare la missione della Fed di riprendere il suo desiderato cammino di graduali strette dopo il finora isolato intervento dello scorso dicembre. Ma soltanto a condizione che il dollaro si riveli un gradevole partner in quella “strana danza” tra tassi e valute.
zorrax
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Oltre all’articolo ben fatto, calza l’immagine!
Rivisitazione in chiave hi tech della Sibilla Cumana!
Davide
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