Come molti economisti, sono rimasto intrappolato nella convinzione che esista un tasso di interesse reale di equilibrio, un livello di tasso di riferimento coerente con inflazione stabile, output gap (differenziale tra prodotto interno lordo effettivo e potenziale) chiuso, o piena occupazione. Il segreto per le autorità monetarie consiste nel trovare il livello magico. Il limite vicino allo zero sulla politica monetaria è un problema unicamente se l’inflazione attesa non è elevata abbastanza per fissare il tasso di riferimento reale a livelli sufficientemente modesti da riportare l’economia in equilibrio.
Sta diventando sempre più ovvio che questo intero quadro di riferimento presenti profonde lacune. Ad esempio, è molto probabile che semplicemente non ci sia un livello di tasso di riferimento reale nell’Eurozona che riporterà il continente a una tendenza di crescita. Perché, dopo tutto, l’interesse reale dovrebbe poi essere questa leva di potere che da sola incrementa o riduce la domanda a un livello coerente con la crescita stabile e l’inflazione?
I modelli economici con cui operano le banche centrali presumono generalmente che la crescita tendenziale sia un dato di fatto. La crescita dell’offerta di lavoro e la produttività sono esogene al processo di politica monetaria. Le due principali fonti di domanda del settore privato sono consumo e investimenti, entrambi anche funzioni dei tassi di riferimento reali.
In un altro articolo sostenevo che la spesa per i consumi privati reali non fosse una funzione negativa diretta dei tassi di interesse reali. Il grafico seguente mostra come la relazione sia cambiata negli ultimi 40 anni negli Stati Uniti. Anche se sembra esserci una relazione negativa all’inizio del periodo, essa è meno chiara oggi.
Teoricamente, per ogni dato cambiamento dei tassi di interesse reali esiste un effetto reddito e sostituzione, e ci sono valide ragioni per credere che quanto più bassi divengono i tassi di interesse reali, tanto inferiore sarà lo stimolo ricevuto, e che a tassi di interesse reali estremamente bassi, il segno potrebbe addirittura cambiare: tassi di interesse reali ridotti provocano un aumento dei risparmi auspicati. Ci sono due ragioni di base. Un’utilità marginale in diminuzione del consumo corrente e l’effetto reddito dominante l’effetto sostituzione. Per essere chiari, si tratta di una domanda empirica, e ci sono buone ragioni per credere che in buona parte se non tutto il mondo sviluppato al momento i tassi di interesse reali inferiori non stimolino la spesa dei consumatori.
Elemento non trascurabile, la teoria dei consumi non considera in realtà la questione non banale di quali tassi di interesse reali vengano usati dai consumatori per scontare il consumo futuro. Si tratta di una sfida ancora più ovvia nel pensare a funzioni di investimento. Anche i macro economisti teorici esperti parlano ancora come se la spesa di investimento fosse una funzione diretta del tasso di riferimento reale. In una discussione recente sulle ragioni di un capex del settore privato molto basso, Robert Barro ha concluso che anche l’utile sugli investimenti atteso dovesse essere estremamente ridotto, dato che la spesa mediocre degli investimenti privati sta coincidendo con un tasso sui fed fund reale negativo.
Sembra aver dimenticato che il costo azionario non lo sia, o ritiene il premio al rischio azionario meno rilevante nel determinare la spesa di investimento del settore privato rispetto al tasso Fed Fund reale, il che sembra decisamente strano.
Logicamente il tasso di sconto reale che consideriamo come influente nella spesa di investimento del settore privato dovrebbe essere un costo di capitale. Tutte le funzioni di investimento si basano su una qualche variante del principio che le aziende investiranno fino al punto in cui l’utile sugli investimenti marginale corrisponda al costo marginale. Ma il tasso Fed Fund reale non è un costo marginale dell’impresa. Sicuramente un costo reale inferiore del debito ne è parte, ma il costo azionario del capitale potrebbe dominare.
Vediamola così. È interessante che nella fase post-crisi il rendimento degli utili reale in buona parte dei Paesi sviluppati si sia appena mosso, nonostante un crollo dei tassi reali sulla liquidità. Un’impresa alle prese con valutazioni di un investimento nuovo e rischioso non guarderebbe a tassi reali a pronti per scontare i rendimenti, ma al costo azionario reale, fermo a livelli pre-crisi. Quel che è peggio, visto che non viviamo in un mondo puramente secondo lo schema modigliani-miller, le imprese che possono prendere in prestito denaro senza conseguenze sul loro costo azionario farebbero meglio a emettere debito e riacquisti azionari, piuttosto che essere coinvolte in rendimenti incerti. Forse non sorprende, ma è proprio quello che molte società stanno facendo.
È comprensibile sostenere che se il tasso a pronti reale si muove indipendentemente dal rendimenti degli utili reale (si veda grafico), dovrebbe avere un impatto trascurabile sulle spese di investimento.
Se il tasso di riferimento reale a certi livelli ha un impatto trascurabile sui consumi, o i suoi effetti si annullano a vicenda, e simultaneamente il costo reale azionario appare immune ai cambiamenti del tasso di riferimento reale, semplicemente non abbiamo a che fare con la leva di politica monetaria magica e determinante che vorremmo fosse.
Prendiamo ad esempio l’Eurozona, dove credo questo sia probabilmente vero. Non sono molto convinto che i tassi di riferimento reali più bassi condurranno a un aumento dei consumi. Che non significa neanche che i tassi reali saliranno. Credo ci sia un livello di tassi di riferimento reali non dannoso. Quel livello è probabilmente vicino a dove ci troviamo. È anche molto chiaro che tassi di interesse reali bassi, o più bassi, non sono particolarmente rilevanti per le spese di investimento nell’Eurozona: il premio al rischio azionario è decisamente troppo elevato, e si sta muovendo indipendentemente dai tassi a pronti.
Piuttosto che negare i cambiamenti concettuali di pensiero che sto descrivendo qui, le banche centrali dovrebbero mostrarsi aperte a questo elemento. Se ho ragione, le attuali politiche monetarie di tassi di interesse negativi e gli acquisti obbligazionari da parte dei governi sono inefficienti nel migliore dei casi e, nel peggiore, dannose. Inoltre riporta l’attenzione su alternative. Ad esempio, come possiamo ridurre il premio al rischio azionario?
La mia opinione sulla debolezza della spesa di investimento privata è del tipo da libro di testo di acceleratore keynesiano, come descritto di recente da Brad DeLong. In poche parole, se la domanda aggregata (o le vendite finali) potesse essere incrementata, la spesa degli investimenti privati seguirebbe con maggior impeto.
L’attaccamento alla convinzione che il tasso di riferimento sia onnipotente deriva anche da una paura di superfluità della politica monetaria. Ciò è sbagliato. La politica monetaria deve semplicemente essere usata per incrementare la domanda aggregata in modi diversi, più diretti.
di Eric Lonergan, gestore investimento macro di M&G Investments