Un dato deludente sull’inflazione lo si ripone nel cassetto e non ci si pensa più. Due dati deludenti sull’inflazione fanno venire qualche dubbio, ma non fanno cadere il paradigma di Goldilocks, così bello e rassicurante che sarebbe proprio un peccato abbandonarlo.
Tre dati deludenti sull’inflazione, uno di seguito all’altro, costringono a svegliarsi dal sogno e a tornare alla lavagna per capire in che mondo viviamo davvero. È una seccatura e qualcuno troppo esposto può anche prendersi paura, ma una volta aggiornati e rifatti i conti, il quadro che ne emerge non è così preoccupante e resta interessante per chi investe.
Il risveglio è faticoso perché da mesi si era cominciato a credere in un mondo perfetto, fatto di inflazione in costante discesa, di crescita solida, di banche centrali pronte a tagliare i tassi per tutti i prossimi due anni. In realtà, il mondo che i mercati raccontavano a se stessi non era solo perfetto, ovvero in un equilibrio ottimale tra inflazione e crescita, ma più che perfetto. Era cioè un mondo che non solo viveva in armonia con le leggi della fisica economica, ma le forzava in meglio. Si pensava cioè che un mondo in cui tutti stimolavano la domanda (America sopra tutti, ma anche Cina, Giappone e perfino Europa) con politiche fiscali espansive e in cui alcuni crescevano sopra il potenziale (America) avrebbe magicamente generato un’inflazione non solo stabile, ma addirittura in discesa.
Si pensava anche che il rialzo delle materie prime fosse solo un brutto ricordo dei tempi della pandemia e dello shock prodotto dalla guerra in Ucraina. Non si credeva che il fatto che tutti i governi del mondo (America, Europa, Cina, India, Russia) stessero spingendo la produzione di armamenti, la produzione industriale in tutti i settori (come in Cina), l’intelligenza artificiale con il suo enorme consumo di energia, la transizione energetica, le batterie, le auto elettriche e i semiconduttori avrebbe mai risvegliato dal torpore del 2023 il rame e il petrolio.
Si pensava che il fabbisogno pubblico del Tesoro americano (un trilione e mezzo da finanziare ogni anno) avrebbe trovato sempre e comunque entusiasti compratori di bond e che i giapponesi avrebbero continuato a sottoscrivere i JGB dopo avere ascoltato dalle autorità monetarie la promessa di rendimenti reali negativi del 2-3 per cento per molti anni a venire. Salvo poi accorgersi che qualcuno cominciava a cercare alternative, dal bitcoin all’oro.
Certo, allo stimolo della domanda si è affiancato uno stimolo all’offerta. La produzione di combustibili fossili è stata riabilitata e rilanciata (petrolio in America, carbone in Germania, India e Cina, gas dappertutto) e si sono spalancate le porte all’immigrazione. Si è però dimenticato che i 10mila immigrati che arrivano ogni giorno negli Stati Uniti hanno bisogno di una casa e che in questo contesto è difficile che gli affitti (come invece ancora molti sostengono) scendano nei prossimi mesi dando il contributo finale per avvicinare l’inflazione al 2 per cento.
Insomma, la riscoperta dell’inflazione da parte dei mercati non è dovuta al fatto che il mondo è improvvisamente diventato più brutto, ma all’insostenibilità di una narrazione a tinte rosa che raccontava un mondo che non c’era. L’inflazione, in America, ha smesso di scendere nove mesi fa, ma i mercati, ipnotizzati dall’inflazione anno su anno e ignari dell’inflazione corrente annualizzata, continuavano a ipotizzare un trend discendente inarrestabile.
Il risveglio non è però così traumatico. Invece della tiepida Goldilocks del soft landing abbiamo a che fare con un boom inflazionistico a tinte vivaci. C’è inflazione (in America, più o meno, al 3.5 per cento) ma è sbagliato dire che è fuori controllo. È anzi un’inflazione che, vista da governi e banche centrali, è benvenuta perché sgonfia lo stock di debito rispetto al Pil, che altrimenti si avvierebbe verso traiettorie insostenibili. Per il momento è anche un’inflazione non pericolosa, perché il costo del lavoro, rapportato alla produttività, è anch’esso compatibile, come nota Jason Furman, con un’inflazione complessiva del 3.5, non di più.
Anche per le borse un’inflazione vivace ma non troppo è un dato positivo, perché gonfia i ricavi nominali e gli utili nominali. I multipli, dal canto loro, non sono un problema finché le banche centrali si mantengono orientate verso un taglio dei tassi e finché la parte lunga della curva non supera soglie potenzialmente pericolose (il 4.75-5 per cento per il decennale americano).
Chi deve stare attento all’inflazione è l’investitore finale. Un contesto di boom inflazionistico offre però ottimi strumenti per difendersi. La parte breve della curva offre buoni rendimenti. Una piccola parte del portafoglio obbligazionario può di nuovo spostarsi su scadenze lunghe a tasso fisso per proteggersi dal rischio che il boom si sgonfi. Un’altra parte può essere impiegata in titoli indicizzati, molto utili nel caso l’inflazione divenga a un certo punto troppo vivace.
L’oro rimarrà sostenuto dalla domanda asiatica dei giapponesi in cerca di alternative ai JGB e dei cinesi in cerca di alternative all’immobiliare.
Sulle borse si scaricherà nei prossimi giorni il flusso di dati sugli utili del primo trimestre. Con economie in buona crescita e inflazione vivace è difficile pensare che siano deludenti.
In conclusione, il bagno di realtà di queste ore non comporta la necessità di ulteriori significative correzioni. Le borse tuttavia abbandonano la psicologia da bolla e i bond abbandonano i sogni di tassi terminali al 2.6 per cento (il livello indicato nel Fomc di marzo). Sono, a ben vedere, due buone notizie.