di James Kynge e Jonathan Wheatley
Addio sogni di gloria?
Tuttavia, a leggere gli ultimi dati, la realtà della Nuova via della seta sembra discostarsi nettamente dai sogni di gloria di Xi Jinping. Quello che era stato concepito come il più grande programma di sviluppo del mondo si sta trasformando per la Cina in una potenziale crisi del debito estero, la prima che il Paese abbia mai affrontato. È successo che i prestiti erogati dalle istituzioni cinesi deputate a finanziare la Belt and Road Initiative sono crollati, e con loro anche gli accordi bilaterali con i governi esteri. Non solo, a poco più di tre anni dal lancio del progetto Pechino si trova impantanata in una serie di trattative per la rinegoziazione del debito con una miriade di paesi.
“Tutto ciò rientra nella crescita fisiologica della Cina come potenza in ascesa”, sostiene Hillman, che sul tema ha scritto il saggio The Emperors New Road (“La nuova strada dell’imperatore”). “La Cina ha preteso di esportare un modello basato sulle grandi infrastrutture che in patria sembrava funzionare, ma si è rivelato difettoso sul piano estero”.
Falliti la maggior parte degli investimenti strutturali
“Storicamente – continua Hillman – la maggior parte dei boom economici spinti da investimenti infrastrutturali è fallita. La Cina potrà evitare lo stesso destino solo se riuscirà a rinegoziare intelligentemente i prestiti con i paesi che ora hanno urgente bisogno di ridurre il loro debito pubblico. Se non sarà in grado o non sarà disposta a fornire sufficienti sgravi ai paesi debitori, potrebbe andare in contro a una crisi di debito generata nei mercati in via di sviluppo”.
I dati che dipingono il fosco quadro della situazione cinese sono stati elaborati dall’Università di Boston, che mantiene un database indipendente sui finanziamenti cinesi allo sviluppo. I ricercatori hanno scoperto che negli ultimi anni i prestiti erogati dalla China Development Bank e della Export-Import Bank sono crollati da 75 miliardi di dollari del 2016 a soli 4 miliardi del 2019.
I due istituti, che insieme costituiscono la cosiddetta “Policy bank” cinese, creata per finanziare le iniziative politiche di Pechino, ricadono sotto il diretto controllo del Consiglio di Stato della Repubblica popolare, che ne dispone come una sua estensione. Di fatto, la Policy bank cinese fornisce la stragrande maggioranza dei prestiti allo sviluppo estero e l’ammontare dei fondi che eroga è paragonabile a quello della Banca Mondiale, il più grande finanziatore multilaterale del mondo.
Ridimensionamento drastico dei prestiti
Sempre secondo gli studi dei ricercatori dell’Università di Boston, infatti, tra il 2008 e il 2019 le due banche politiche cinesi hanno fornito nel complesso prestiti per 462 miliardi di dollari, poco meno dei 467 miliardi di dollari distribuiti dalla Banca Mondiale. In alcuni anni, addirittura, i prestiti cinesi sono stati quasi equivalenti a quelli erogati da tutte e sei le istituzioni finanziarie multilaterali del mondo messe insieme: Banca Mondiale, Banca asiatica di sviluppo, Banca interamericana di sviluppo, Banca europea per gli investimenti, Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo e Banca africana di sviluppo.
Per questo, sul piano dei finanziamenti allo sviluppo un ridimensionamento così drastico dei prestiti cinesi come quello avvenuto quest’anno rappresenta un vero terremoto. Se il trend dovesse persistere andrebbe ad aggravare un deficit di finanziamento delle infrastrutture che solo in Asia ammonta già a 907 miliardi di dollari l’anno, secondo le stime della Banca asiatica di sviluppo. Ancora peggio in Africa e in America Latina, dove il credito cinese rappresenta da anni una parte ingente dei finanziamenti alle infrastrutture.
La politica della doppia circolazione
Il dietrofront della Cina sui finanziamenti esteri allo sviluppo è, secondo gli analisti cinesi, l’effetto di un cambiamento politico strutturale: “La Cina sta consolidando, assorbendo e digerendo gli investimenti fatti in passato”, sostiene Wang Huiyao, membro del Consiglio di Stato cinese e presidente del think-tank “Center for China and Globalisation”.
Il professor Chen Zhiwu, che insegna finanza all’università di Hong Kong, ritiene che il ridimensionamento dei prestiti cinesi all’estero faccia parte di un quadro più ampio di riduzione degli investimenti in uscita volto a canalizzare maggiori risorse a livello nazionale. Ma, sempre secondo Chen Zhiwu è anche una risposta al comportamento adottato dagli Stati Uniti durante la presidenza Trump, che ha agitato la Belt and Road Initiative come uno spettro per giustificare politiche ostruzioniste nei confronti dell’economia cinese.
“Nei media cinesi la frequenza dell’argomento ‘Belt and Road’ è diminuita molto negli ultimi anni, in parte anche perché si è cercato di sminuire le ambizioni espansionistiche della Cina e rassicurare l’opinione pubblica internazionale”, afferma Chen Zhiwu, che è anche direttore del think-tank Asia Global Institute. “E mi aspetto che questo ridimensionamento continui nel prossimo futuro”.
Un altro esperto di Cina come Yu Jie, membro del think-tank britannico Chatham House, sottolinea che il cambio di strategia nelle relazioni con il mondo esterno effettuato da Pechino è cominciato dall’introduzione recente della politica della “doppia circolazione”. Si tratta di una misura varata dal Comitato centrale di Pechino come asse portante del nuovo piano quinquennale, che consiste nel privilegiare gli investimenti nel mercato interno (o “circolazione interna”) rispetto al commercio estero.
“La volatilità delle relazioni sino-americane e l’accesso più restrittivo ai mercati esteri per le aziende cinesi hanno indotto i pianificatori economici di Pechino a ripensare gli attuali fattori di crescita del Paese – spiega il professor Yu –. Naturalmente, se le aziende di Stato cinesi sceglieranno davvero di tornare a dare priorità al mercato interno, come vuole la leadership, le risorse finanziarie per gli investimenti all’estero risulteranno conseguentemente ridotte”.
Risaliranno i prestiti da organismi multilaterali
Gli analisti si dicono convinti che tutto ciò stia portando la Cina a un ripensamento sul progetto della Nuova via della seta e, più in generale, sull’impegno cinese nel quadro dei finanziamenti esteri. Wang Huiyao prevede che una delle conseguenze di questo nuovo approccio sarà l’aumento del numero di prestiti erogati attraverso organismi multilaterali, come per esempio l’Asian Infrastructure Investment Bank. E come conseguenza di ciò le istituzioni finanziarie cinesi potrebbero cooperare maggiormente con le agenzie internazionali.
Sarebbe una vera rivoluzione. L’Asian Infrastructure Investment Bank, infatti, ha sede a Pechino ma (analogamente all’altra banca multilaterale cui la Cina partecipa, la New Development Bank) è un’organizzazione molto diversa dalla Policy bank. Innanzitutto perché la AIIB al momento ha erogato molti meno prestiti rispetto alle banche politiche cinesi, ma soprattutto perché non è diretta dal Comitato centrale, ma da un consiglio di amministrazione che rappresenta gli interessi dei paesi che ne fanno parte.
I difetti della Nuova via della Seta
Nel complesso, l’attuale dietrofront cinese si può leggere come una tacita ammissione del fatto che la mano larga della Cina nei prestiti esteri adottata negli ultimi anni sia stata un errore. Forse era possibile capirlo già nel 2017 semplicemente guardando le foto scattate durante quel “Belt and Road Forum for International Cooperation” scelto da Xi Jinping come cornice per annunciare in pompa magna il suo “progetto del secolo”.
Le istantanee di quell’evento mostravano già quello che si sarebbe rivelato il difetto fatale della Nuova via della seta. Xi Jinping era attorniato da leader autoritari come il bielorusso Alexander Lukashenko, Hun Sen dalla Cambogia, Aleksandar Vucic dalla Serbia, Uhuru Kenyatta dal Kenya: presidenti di Paesi con debiti pubblici molto alti e rating di livello “spazzatura”.
La sostenibilità del debito – ovvero la capacità dei Paesi debitori di rimborsare i prestiti – avrebbe dovuto invece essere una parte essenziale della Belt and Road Initiative, come ricorda Kevin Gallagher, direttore del Global Development Policy Center della Boston University, l’istituto che ha raccolto ed elaborato i dati sui prestiti cinesi all’estero.
“Questo è il momento giusto per ripensare il progetto. Xi Jinping ci ha investito così tanto che non si limiterà a spegnere le luci, ma la Cina deve seriamente implementare i suoi strumenti di valutazione della sostenibilità del debito e dell’impatto sociale e ambientale delle iniziative finanziate”, spiega Gallagher.
Caso simbolo del flop: il Venezuela
La fallimentare propensione cinese a orientare i canali di finanziamento sulla base delle alleanze diplomatiche è perfettamente rappresentata dal caso del Venezuela. Tra il 2007 e il 2013 la China Development Bank ha prestato al Venezuela quasi 40 miliardi di dollari, nell’ottica di consolidare il rapporto politico con Hugo Chávez. Rapporto che il leader bolivariano aveva dipinto nella sua retorica come “una grande muraglia” eretta contro l’egemonia statunitense.
Gran parte dei prestiti concessi al Venezuela erano garantiti dalle risorse petrolifere del paese, ma anche prima della morte di Chávez nel 2013 era chiaro che le cose stavano prendendo una brutta piega. Eppure, Pechino è rimasta talmente prigioniera del suo schema politico da continuare a sostenere finanziariamente anche il successore di Chavez, Nicolás Maduro, nonostante avesse dato prova manifesta di inefficienza nella gestione dell’economia.
Così, tra il 2013 e il 2017 i cinesi hanno prestato a Caracas altri 20 miliardi di dollari e ora si ritrovano sulle spalle 150 miliardi di debiti insoluti. Matt Ferchen del think-tank “Merics” di Berlino ritiene che Pechino dovrà trarre un insegnamento molto importante da questo episodio.
“I responsabili di politica estera e i funzionari delle banche politiche cinesi si sono relazionati al Venezuela con un misto di arroganza, ambizione e ingenuità – afferma ancora Ferchen –, contribuendo così alla peggiore crisi economica, umanitaria e politica vissuta in Sudamerica negli ultimi decenni”.
Richieste di rinegoziazione del debito
A tutto questo va aggiunto che, nell’anno del Covid, dall’Africa e da altre economie emergenti sono fioccate richieste di rinegoziazione del debito. Un rapporto della società di consulenza Rhodium Group mostra che nel 2020 tra la Cina e i suoi debitori sono stati aperti almeno 18 procedimenti di rinegoziazione, per un totale di 28 miliardi di dollari in prestiti. A fine settembre 12 paesi erano ancora in trattativa.
Finora Pechino è sembrata intenzionata a mantenere un approccio morbido in questo frangente, acconsentendo al rinvio dei pagamenti degli interessi e rinegoziando i prestiti. Ma l’esperienza sta facendo crescere un forte senso di diffidenza nei vertici del paese, che getta un’ombra pesante sul grande progetto della Belt and Road Initiative.
Come ha scritto Jonathan Hillman, la Cina sta scoprendo che “sulla Nuova via della seta i rischi viaggiano in entrambi i sensi di marcia, e i problemi possono tornare indietro”.
Traduzione di Riccardo Antoniucci
Pubblicato per gentile concessione de Il Fatto Quotidiano