di Ettore Sequi
Henry Kissinger sosteneva che i sovietici, quando trattavano con gli Stati Uniti, preferissero trovarsi di fronte Presidenti repubblicani piuttosto che democratici. I primi, infatti, erano considerati più pragmatici, meno intrusivi in tema di diritti umani e con una mentalità da uomini d’affari. La definizione di Kissinger, oggi da applicare ai rapporti tra Stati Uniti e Cina, nuovo competitor globale della potenza americana, è solo parzialmente applicabile a Trump.
L’imprevedibilità caratterizza infatti il neo-rieletto presidente americano, mentre i cinesi non amano le sorprese. È molto probabile che i prossimi anni segneranno, anche con tratti di imprevedibilità, una intensificazione della competizione strategica tra Stati Uniti e Cina, in ambito economico, tecnologico, militare e spaziale.
L’obiettivo della nuova Amministrazione americana è chiaro: rallentare l’avanzata cinese in settori cruciali, come i semiconduttori, l’intelligenza artificiale, le infrastrutture digitali e contenerla, soprattutto nell’Indo-Pacifico.
A Pechino, in queste ore, ci si interroga sulle intenzioni del Trump 2.0 e sulle implicazioni concrete dell’America First. Innanzitutto, il commercio. In campagna elettorale Trump ha annunciato l’intenzione di imporre tariffe del 60% sulle importazioni dalla Cina, con l’obiettivo di ridurre il deficit commerciale bilaterale e proteggere i lavoratori americani. Queste misure avrebbero effetti molto seri per la Cina che oggi affronta la minaccia esistenziale di una economia a rischio di stagnazione.
Pechino, incapace di alimentare il proprio Pil con la crescita dei consumi interni, ha infatti necessità vitale di accedere ai mercati di Europa e Stati Uniti, anche ricorrendo a sussidi e pratiche commerciali distorsive. Una guerra dei dazi esporrebbe la Cina a gravi conseguenze economiche e sociali che potrebbero perfino minarne la coesione interna. È probabile che Trump utilizzerà questa leva per costringere la Repubblica Popolare ad aumentare le importazioni di alcuni beni americani, mostrando così la sua capacità di mantenere le promesse elettorali.
Vi è poi il nodo di Taiwan, che la Cina intende riassorbire entro il 2049, centenario della fondazione della Repubblica Popolare. Già nel 2016 Trump aveva fatto balenare la possibilità di utilizzare Taiwan come pedina per potenziali accordi con Pechino su altri tavoli. Tuttavia, Taiwan sta assumendo un ruolo sempre più cruciale nel quadro dell’architettura di sicurezza americana nell’lndo-Pacifico. È dunque probabile che Trump manterrà Taiwan come fulcro della politica americana per contenere la Cina nella regione.
Washington, prevedibilmente, offrirà assicurazioni a Taiwan, ma a condizione che l’isola aumenti gli oneri per la propria difesa. Così facendo la nuova Amministrazione americana potrà ottenere due obiettivi: diminuire il proprio impegno economico e militare diretto e inviare a Pechino il chiaro messaggio che gli Stati Uniti non intendono arretrare nel Pacifico.
È anche probabile che, al fine di contenere la Cina, gli Stati Uniti spingeranno per una maggiore assunzione di responsabilità dei propri alleati nell’area, attraverso il meccanismo del Quad, intesa regionale insieme ad Australia, India e Giappone, o l’Aukus, con Australia e Regno Unito. Molto dipenderà anche dagli equilibri che prevarranno tra i principali consiglieri di Trump, tra cui potrebbero esservi figure già conosciute, come l’ex segretario di Stato Mike Pompeo, o lo stesso vicepresidente Vance.
Resta il fatto che la Cina rappresenta la sfida principale per gli Stati Uniti e che su questa sfida verranno concentrate le maggiori risorse politiche, diplomatiche e militari americane. Ciò potrebbe avere come effetto una possibile diminuzione dell’impegno americano in Europa e Medio Oriente. In generale, la presidenza Trump, almeno nella sua prima fase, sarà certamente accompagnata da una impostazione transattiva nei confronti della Cina, da una priorità strategica nell’Indo-Pacifico e da un’aspra competizione sui temi economici commerciali. La buona notizia è però che i due presidenti, Trump e XI, già si conoscono, si rispettano e si prendono reciprocamente sul serio.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato da La Stampa, che ringraziamo