di Alessandro Fugnoli, strategist Kairos
Lettura politica. Se nella Bce le linee di divisione sono geografiche (nord vs sud), nella Fed sono partitiche. Ecco allora che gli 8 democratici del Fomc, più un Powell che non ama Trump, lasciano a Biden i tre tagli del 2024 (che hanno infatti avuto 9 voti) e tolgono a Trump (se verrà eletto) uno dei tre tagli del 2025.
Lettura istituzionale. Gestire una grande istituzione significa esercitare con sapienza l’arte del compromesso. Ecco allora che si concedono alle colombe cinque tagli tra 2024 e 2025, il rallentamento del Quantitative Tightening e la promessa non solo di evitare la recessione ma di crescere leggermente sopra il potenziale.
Ai falchi si concedono un taglio in meno rispetto a dicembre, un piccolo aumento del tasso terminale (dal 2.5 al 2.6), il possibile allungamento nel tempo del Quantitative Tightening e l’ammissione che l’inflazione e l’occupazione saranno quest’anno più alte di quanto previsto in dicembre.
Lettura storica. Il 2024 fa rima con il 2021, anche se in tono minore. Con una crescita dell’economia fortissima nel 2021 e molto forte quest’anno (anche se negli ultimi tempi un po’ meno) e con i prezzi al consumo che salgono con violenza nel 2021 e risalgono a passettini nel 2024, la Fed sceglie consapevolmente di chiudere due occhi sull’inflazione nel 2021 e mezzo occhio nel 2024.
Nel 2021 getta taniche di benzina sul fuoco dell’inflazione tenendo i tassi a zero e dichiarando che l’aumento dei prezzi è transitorio. Nel 2024 è più accorta, non nega che l’inflazione stia risalendo, ma intanto conferma comunque i tagli dei tassi già previsti in dicembre.
Con la borsa ai massimi, la politica fiscale ultraespansiva e la piena occupazione la Fed mette lo stesso in secondo piano, nel 2024 come nel 2021, la lotta all’inflazione.
Riassumendo, è dunque terminata ufficialmente la fase, avviata nella primavera del 2022, in cui la politica monetaria ruotava intorno al perno del 2 per cento di inflazione come obiettivo prioritario. Inizia ufficialmente la fase in cui è il 2 per cento di crescita a diventare il perno.
Sull’inflazione si adotta la linea, molto anni Novanta, della disinflazione opportunistica. Si cerca in pratica di contenere l’inflazione nelle fasi di espansione (senza comunque ostacolarle) e si aspetta un’eventuale recessione (non cercata) per abbassarne il livello.
Il ritorno all’obiettivo viene dunque rimandato a un tempo indefinito. Nell’attesa, con ogni probabilità, l’obiettivo ufficiale verrà spostato dal 2 al 3 per cento. Non subito, ma comunque entro un paio d’anni.
Come nel 2021, tutto questo è musica per le borse e per i crediti ed è agrodolce per i bond lunghi, che da una parte si ritrovano con più inflazione di quella che stavano incorporando (in particolare nella parte lunga della curva), ma dall’altra si apprestano a orbitare intorno a tassi di policy in progressiva discesa.
Resta l’enigma dei tassi reali. Si avvia a conclusione la breve fase, poco più di sei mesi, in cui gli obbligazionisti sono tornati a godere di rendimenti reali positivi. Poco, se si pensa che per tutto il decennio scorso i tassi sono stati sotto l’inflazione e che negli anni della pandemia la perdita reale è stata davvero consistente.
Da qui in avanti l’ipotesi più probabile è quella di tassi reali ancora positivi, ma vicini a zero. Più avanti dipenderà dai disavanzi fiscali, che si manterranno comunque elevati per tutto l’orizzonte prevedibile.
O l’inflazione, con una fiammata ogni tanto, terrà sotto controllo il rapporto debito/Pil, oppure, nella peggiore delle ipotesi, si introdurranno forme di controllo di curva. Con tutte queste incognite, è comprensibile come anche all’interno delle banche centrali la questione dei tassi reali sia in questo momento tra le più dibattute.
Un aspetto nuovo e interessante dell’ultimo Fomc è la grande attenzione al tema dell’immigrazione. Powell l’ha citata continuamente. L’immigrazione informale, in questa fase, è per gli economisti l’equivalente della materia oscura per i fisici. Si sa che c’è, si sa che è enorme, non si sa bene a quanto ammonti e in certe misurazioni la si intravvede e in altre no.
Non c’è dubbio che abbia raffreddato il mercato del lavoro e le retribuzioni, in particolare nell’ultimo anno. Ha però tenuto più alti del previsto gli affitti e, indirettamente, i prezzi delle case. Gli immigrati infatti, per quanto informali, trovano subito un lavoro e non dormono sui marciapiedi come i nativi impoveriti, ma in pur modeste abitazioni in affitto.
Sugli affitti si appuntavano molte speranze per un calo, nei prossimi mesi, dell’inflazione core, che invece ha ripreso a crescere. La Bank of Canada, in dicembre, ha collegato chiaramente l’immigrazione (ancora più alta che negli Stati Uniti) ai prezzi in tensione degli immobili e degli affitti.
In un altro studio di fine febbraio (The Cost of Money is Part of the Cost of Living), Larry Summers si pone una domanda.
Perché il boom dell’economia americana è avvertito da tutti tranne che dagli americani? La risposta è nell’inflazione percepita, molto più alta di quella calcolata dagli economisti e valutata dai mercati finanziari.
Il gap, dice Summers, non è dovuto a pregiudizi cospirazionisti, ma al dato di fatto che, per le famiglie che devono arrivare alla fine del mese non c’è solo l’inflazione della pompa di benzina o del supermercato, ma anche quella degli interessi da pagare sui debiti.
Misurando anche questi, come si faceva nelle statistiche ufficiali fino al 1984, l’inflazione dell’anno scorso è stata in realtà del 18 per cento.
Le case, ad esempio, sono salite di prezzo del 50 per cento dall’inizio della pandemia. I tassi sui mutui, dal canto loro, sono nel frattempo triplicati. Il costo di un’auto comprata a debito (come fa la maggioranza degli americani) è cresciuto nello stesso periodo dell’80 per cento.
È con questo carico di contraddizioni, tra borse euforiche e sentiment dei consumatori sotto la media storica, che l’America si avvia a votare in novembre. Si profilano tempi interessanti.