di Michael Kimmage
Nuovo anno, vecchi conflitti. Ma soprattutto una guerra in corso dal 2022 che sta impattando ben oltre le previsioni iniziali la geopolitica europea. I paesi dell’UE hanno impiegato un po’ di tempo a entrare a pieno titolo da protagonisti nella contesa tra Russia e Ucraina. Prima hanno puntato su una soluzione rapida, quale che fosse. Poi su rapidi negoziati, illudendosi che quelli in Bielorussia all’inizio delle ostilità e poi quelli in Turchia patrocinati da Erdogan producessero un immediato cessate il fuoco. Era la fine di marzo di due anni fa e fu anche la fine di un’illusione.
A Kiev, pronta ad accettare la condizione di neutralità rinunciando all’ingresso nella Nato, obiettivo strategico e dichiarato di Mosca, venne detto dagli alleati che non era la soluzione giusta. Che la guerra doveva proseguire perché, a quel punto, andava oltre l’Ucraina. Posizione sostenuta energicamente dall’allora premier britannico Boris Johnson, capofila di un gruppo di paesi – baltici in testa – che vedevano nella guerra in corso l’occasione per un ‘redde rationem’ con la Russia.
Da allora è stato un progressivo coinvolgimento dell’Europa nelle dinamiche di una guerra evitabile e controproducente per i suoi interessi. Impegnandosi davvero per il rispetto degli accordi di Minsk che avevano promosso, Francia e Germania avrebbero scongiurato l’acuirsi della tensione. Ma un anno fa, uno dopo l’altro, presi quasi dalla necessità di una catarsi, Merkel e Hollande hanno ammesso di aver utilizzato gli accordi di Minsk per guadagnare tempo a favore del riarmo ucraino.
Anziché puntare alla strategica soluzione a due “F” perorata da subito anche da statisti esperti come Henry Kissinger o Valery Giscard d’Estaing, Parigi e Berlino hanno optato per l’azzardo bellicista. La prima ‘F’ voleva dire finlandizzazione, ovvero neutralità dell’Ucraina. Con la seconda ‘F’ si intendeva federalizzazione del paese: un solo Stato, con la sua integrità territoriale, all’interno del quale veniva riconosciuto uno statuto speciale a due regioni autonomiste del Donbass, quelle di Donetsk e Lugansk. “Come l’Italia con il Trentino-Alto Adige” si ripeteva all’epoca. Era la soluzione prevista tra i dieci punti di Minsk 1 e Minsk 2.
Guerra dunque, e a oltranza. In una singolare competizione a manifestarsi intransigenti nei confronti di Putin, i rappresentanti delle istituzioni europee hanno costantemente rilanciato le condizioni per un negoziato impossibile. Sostenuti, o assecondati, dai governanti di paesi storicamente pacifisti, proiettati in una dimensione di confronto muscolare estranea alla cultura politica di un continente uscito a pezzi, e sotto tutela, dalla Seconda guerra mondiale.
Sanzione dopo sanzione, finanziamento dopo finanziamento, passando poi a equipaggiamento e munizionamento dell’esercito ucraino, gli europei si ritrovano coinvolti quanto gli Stati Uniti in un confronto da cui, a differenza degli americani, non hanno nulla da guadagnare. Né prima, quando le ragioni del conflitto potevano essere disinnescate, né adesso che la guerra incide sull’economia dell’intero continente, né in futuro.
Proprio ciò che l’Europa ha davanti è fonte, paradossalmente, delle maggiori preoccupazioni. Dopo il salto nel buio, che ha portato a sacrificare la convenienza economica delle forniture energetiche russe, l’Unione Europea ha tracciato i presupposti per tentarne un altro. L’adesione dell’Ucraina al club è solo un’ipotesi, piuttosto remota, ma sufficiente a provocare inquietudini profonde negli stessi circoli economici più solidali con Kiev. Che rilevano come quell’ingresso comporterebbe un rilevante aggravio finanziario per i paesi che sono contributori netti, a cominciare da Germania e Francia, e sottrarrebbe risorse a quelli che sono invece beneficiari netti (come l’Italia, dopo l’incasso delle prime rate del Pnrr).
Gli effetti economici si proiettano sulle condizioni sociali e queste, a loro volta, hanno conseguenze politiche che le elezioni europee di giugno potrebbero rivelare in una dimensione tutta da scoprire. Ma non c’è solo questa ricaduta, di per sé rilevante. C’è di più.