Intervista di Umberto De Giovannangeli
Un libro coraggioso. Emozionante. Di una profondità e onestà intellettuale che ha pochissimi riscontri in tempi dominati dalla partigianeria preconcetta e da una superficialità analitica spacciata per verità oggettiva. Un libro che fa discutere: Il suicidio di Israele (Editori Laterza). Un libro che va per la maggiore, già esaurito, in ristampa la seconda edizione. A scriverlo è una grande intellettuale dell’ebraismo italiano: Anna Foa. La professoressa Foa ha insegnato Storia moderna all’Università di Roma La Sapienza. Si è occupata di storia della cultura nella prima età moderna, di storia della mentalità, di storia degli ebrei.
Professoressa Foa, il suo libro, che emoziona e fa pensare, ha un titolo forte, drammatico: Il suicidio di Israele. Un suicidio che sarebbe non solo politico ma anche morale. Da cosa nasce questo doloroso convincimento?
A me sembra che Israele stia precipitando in un baratro. Dal punto di vista politico e militare, non mi sembra possibile che possa fare una guerra con l’Iran vincendola o addirittura portando la liberazione in quel Paese, liberazione che spero venga dall’interno. Non credo che possa gestire tante guerre tutte insieme. Adesso addirittura si scagliano contro l’Onu.
Inoltre, credo che tutto questo sia un colpo terribile all’etica del paese, alla morale, oltre che allo stato d’animo già molto depresso dopo quel terribile 7 ottobre di un anno fa. Israele è molto traumatizzata. Ma quello che Netanyahu e il suo orribile governo stanno facendo è portare all’estremo questo trauma, ad una sorta di chiusura del cerchio, alla convinzione che tutto il mondo ce l’abbia con te. Una cosa assolutamente deleteria.
In una passata conversazione, si è toccato il tema delle due anime d’Israele e dell’ebraismo. Questione che ritorna con forza nel suo libro.
È l’esasperazione del tradizionale rapporto tra un ebraismo universalistico e un ebraismo che ne è agli antipodi, chiusissimo. Una divaricazione che sta diventando molto pericolosa. Questa visione “apocalittica” e messianica, che sta dentro il “suicidio d’Israele”, non nasce il 7 ottobre 2023. Non nasce quel 7 ottobre. È presente da tempo immemore nel mondo ebraico, e in Israele si estende e focalizza soprattutto dal 1967, a seguito della Guerra dei Sei giorni. È la presa di Gerusalemme che porta al crescere di queste pulsioni messianiche, che negli ultimi dieci anni sono aumentate enormemente, forse ancora prima. Da quel terribile massacro alla Tomba dei Patriarchi di Hebron (25 febbraio 1994, ndr) da parte di Baruch Goldstein, colono estremista, israeliano di origine americana, che aprì il fuoco contro musulmani in preghiera, uccidendone 29 e ferendone oltre cento, prima di essere sopraffatto e ucciso anche lui. I messianici, gli estremisti di destra ne hanno fatto una specie di santo, un eroe di Israele. E tra i suoi fanatici estimatori c’è Itamar Ben-Gvir, attuale ministro della Sicurezza nazionale nel governo Netanyahu.
Israele ha cambiato radicalmente pelle, e con essa orientamenti politici, culturali, identitari, e a spiegarlo più che la geopolitica è la demografia.
C’è stato il grande cambiamento con la destra al potere nel 1977, con la vittoria, la prima dalla nascita dello Stato ebraico, della destra Likud guidata da Menachem Begin. Quelle elezioni rappresentano molto di più di una vittoria della destra contro il partito-stato laburista. Il potere viene sottratto all’Israele ashkenazita, europea, laburista, da parte delle grandi masse sefardite, orientali, abituate a vivere nei Paesi arabi di origine che la democrazia la frequentavano poco o niente, masse più religiose. Un discorso che può estendersi agli ebrei, o sedicenti tali, russi. Subentrano alla vecchia leadership laburista che era stata all’origine d’Israele come Stato nazionale. C’era stata poi la stagione della speranza, quella legata agli accordi di Oslo, impersonata da un grande d’Israele come fu Yitzhak Rabin, ma quella stagione durò molto poco, cancellata dall’assassinio di Rabin perpetrato da un giovane zelota di estrema destra, Yigal Amir, e poi dagli attacchi terroristici a ripetizione da parte di Hamas.
Nell’affermarsi di questa destra messianica e ultranazionalista, non c’è anche l’errore da parte della sinistra di volerla rincorrere sul terreno proprio della destra, cioè quello della sicurezza?
Qui il discorso si fa complesso. Non si tratta di rincorrere. In Israele il problema della sicurezza è reale. Non è di destra né di sinistra, è un dato della realtà con cui tutte e tutti in Israele devono fare i conti. Ero in Israele quando Hamas faceva saltare in aria autobus, discoteche, caffè e tant’altro. Il terrorista che si faceva esplodere non chiedeva se fossi di destra o di sinistra, pro o contro la pace o uno Stato palestinese. Anche oggi c’è una situazione molto difficile. Può succedere di andare per strada o in un centro commerciale ed essere accoltellato o sparato. C’è un odio molto forte che non può essere negato o sottovalutato. Il problema è un altro…
Quale, professoressa Foa?
È che la sicurezza non si risolve con l’esercizio della forza. L’unico modo di avere la sicurezza è arrivare alla pace con i palestinesi. Che ci sia un bisogno di sicurezza, questo è indiscutibile, figuriamoci poi oggi. Ma non è quella la soluzione. Rabin lo aveva capito e per questo è stato assassinato. Va anche detto che non tutta la destra, al potere da più di vent’anni con qualche breve intervallo, è messianica. La destra messianica è una minoranza, ma è una minoranza molto agguerrita, determinata, attiva.
Per storia personale, per il suo stesso modo di vivere, Benjamin Netanyahu, il Primo ministro politicamente più longevo nella storia d’Israele, non assomiglia neanche un po’ ad un “messianico”.
Lui è un laico, un americano di origine. Sono però arrivata al convincimento che Netanyahu ormai di quella destra messianica ne faccia parte. Non credo che lui faccia tutto questo soltanto per salvarsi di fronte alle incriminazioni per le ruberie a lui imputate. Credo che sia ormai totalmente convinto e che sia fuori di testa. Le ultime bordate contro l’Onu sono segno di una malsana mania di grandezza che è condivisa da tutta la destra più estrema. Loro sono davvero convinti che Dio li stia guidando a costruire la Grande Israele e a sbarazzarsi dei palestinesi, non attraverso il genocidio ma attraverso la cacciata. Non è che vogliano uccidere due milioni e mezzo di palestinesi, non ce la farebbero comunque anche se lo volessero. Il disegno è quello della espulsione di massa. Lo si vede chiaramente nella West Bank, dove i coloni, supportati da una parte dei soldati, radono al suolo villaggi, distruggono uliveti, cacciano i palestinesi. Di testimonianze ve ne sono a centinaia, basta leggere Haaretz.
Per questa destra, Hamas, alla fine, non è il nemico di comodo?
Si può anche vederla così. Certamente Hamas da una parte e i suprematisti ebraici dall’altra, vogliono in qualche modo la stessa cosa…
Vale a dire?
Non vogliono uno Stato palestinese. Non vogliono la democrazia. Non vogliono tutta una serie di cose, che coincidono. Il fondamentalismo religioso ebraico e quello musulmano di Hamas sono diversi, però arrivano a punti abbastanza contigui.
Professoressa Foa, che reazione ha suscitato il suo libro nella diaspora ebraica italiana?
Alcuni ebrei, che conosco da anni, hanno detto di essere d’accordo con me. Ma si tratta di una minoranza. La maggioranza, soprattutto nelle comunità di Roma e Milano, certamente non può essere d’accordo. Mi è stato detto che ci sono attacchi su varie chat, ma io non le seguo. Non m’interessa vedere se m’insultano o no. M’interessano e molto, dibattiti seri, come quello che c’è stato con il professor Di Castro, illustre studioso, che stimo molto, in cui lui ha espresso il suo dissenso in maniera molto garbata e io ho risposto in maniera altrettanto gentile, spiegando le mie tesi. È stato un dibattito cortese, come dovrebbero essere tutti i dibattiti ideologici e culturali.
Professoressa Foa, di fronte alla tragedia mediorientale, cosa significa essere veramente “amici d’Israele”?
Ho provato a dirlo con questo libro. Essere amici d’Israele oggi significa anzitutto fermare questa tensione suicidaria che ha Israele. Vuol dire far diventare ragionevole Israele, vuol dire arrivare a un accordo con i palestinesi, vuol dire liberare gli ostaggi, un tema questo molto importante nella società israeliana, vuol dire far crollare il potere di Netanyahu. A me non piace il concetto di “amici d’Israele”, perché non si può essere amici di uno Stato. Ma di un popolo sì, certamente. E io lo sono con tutto il cuore. E per esserlo oggi occorre battersi contro quelle tensioni suicidarie che rischiano di segnare il futuro di un popolo che amo. C’è invece chi ritiene che Israele si salvi e si protegga con le armi, rispondendo colpo su colpo, distruggendo Gaza o allontanando con la forza i palestinesi. Sono due schieramenti contrapposti, e mi sembra che a questo punto si possa fare ben poco. L’unica cosa su cui si può fare qualcosa, e io ho cercato di farlo con il libro, è cercare di spiegare a chi non è filoisraeliano o filo-Hamas, ma magari tende ad essere più filopalestinese anche accettando il massacro del 7 ottobre perché pensa che questo sia un atto di resistenza, provare a spiegar loro la complessità dei sionismi, e cosa sta succedendo, soprattutto all’interno d’Israele, perché molti non lo sanno. Credo che sia qualcosa di utile per cercare di cambiare un po’ la mente della gente. Non credo che un intellettuale possa fare altro.
Nei momenti più drammatici della sua storia, Israele si è sempre rivolta a delle grandi personalità, sia di sinistra e laburiste, come Golda Meir, Yitzhak Rabin, Shimon Peres, ma anche a destra, come lo furono Menachem Begin e lo stesso Ariel Sharon. Mancano oggi in Israele queste grandi figure a cui aggrapparsi?
Mancano come mancano nel resto del mondo, vedi l’Italia. In Israele c’è Netanyahu che si atteggia a piccolo o grande Napoleone. Il fatto è che mancano figure all’altezza anche tra gli oppositori, capaci di ritessere i fili recisi della pace di Oslo. Ma quella stagione della speranza sembra, purtroppo, tramontata.
Intervista pubblicata originariamente da L’Unità, che ringraziamo