Israele, Bibi non molla la destra

Dopo quattro mesi di guerra e 30.000 morti, Netanyahu non ha liberato un solo ostaggio con le armi a Gaza, ma vuole andare avanti. Con gli Usa la frattura è enorme, ma lui insiste perché non vuole “cadere”.

di Fabio Scuto

La risposta di Hamas a una nuova proposta di cessate il fuoco era stata accolta con ottimismo dai mediatori, ma i dettagli emersi poi ieri dalla sua controproposta, inclusa la richiesta di un completo ritiro militare israeliano da Gaza, hanno rivelato molti degli stessi punti critici che hanno ostacolato gli sforzi precedenti per porre fine alla guerra tra Israele e Hamas.

Le due diverse conferenze stampa – del segretario di Stato Usa Antony Blinken e del premier israeliano Benjamin Netanyahu – la dicono lunga su quanto siano distanti le posizioni. Washington vuole chiudere la crisi di Gaza prima che dilaghi pericolosamente in Iraq, Siria e Mar Rosso rischiando di incendiare l’intera regione mediorientale. Dopo quattro mesi di guerra e 30.000 morti, Netanyahu non ha liberato un solo ostaggio con le armi a Gaza, ma vuole andare avanti. “Arrendersi alle condizioni deliranti di Hamas porterà a un altro massacro e a una grande tragedia per Israele che nessuno sarebbe disposto ad accettare”, ha annunciato ieri sera Bibi.

Per quanto ne sappiamo, Hamas aveva risposto a una proposta appoggiata da Israele per una tregua per il rilascio degli ostaggi con una richiesta quasi massimalista di una sospensione dei combattimenti di quattro mesi per arrivare alla fine della guerra. Hamas chiedeva inoltre il rilascio di un gran numero di prigionieri palestinesi, tra cui centinaia di ergastolani, in cambio del rilascio graduale degli ostaggi nelle sue mani dal 7 ottobre.

Da una parte c’è il primo ministro Benjamin Netanyahu che insiste ripetutamente sul fatto che la guerra non finirà senza la “vittoria assoluta” su Hamas e il ritorno di tutti gli ostaggi. Dall’altro, Hamas condiziona la restituzione degli ostaggi alla fine di una guerra in cui è tutt’altro che sconfitto. Con loro, abbiamo un’amministrazione americana cauta nel chiedere pubblicamente un cessate il fuoco permanente, ma disperata di fronte al rifiuto di Netanyahu di definire una visione per una Gaza del dopoguerra. L’America sta cercando di ribaltare la crisi in un’opportunità per promuovere una soluzione a due Stati e una più ampia riconciliazione regionale sostenuta dalla comunità internazionale.

È probabilmente giunto il momento in cui Bibi dovrebbe dire ai suoi sodali di estrema destra che Israele non rioccuperà permanentemente Gaza; che non è nell’interesse dello Stato ebraico riprendersi la responsabilità civile e finanziaria di 2,3 milioni di gazawi ostili; che Israele deve lavorare urgentemente con le parti interessate della comunità internazionale per creare un meccanismo per il governo civile non israeliano a Gaza, e che se questo non è di loro gradimento, sono invitati a lasciare il suo governo. Avrà il coraggio di farlo? Non sembra proprio. Le sue continue spacconate sulla “vittoria assoluta” non hanno senso senza gli strumenti politici e militari pratici per ottenerla. Sono parole al vento. Parenti degli ostaggi, riservisti tornati dal fronte, società civile. Tutti sono di nuovo nelle strade con una sola parola d’ordine: “Vattene”.

Fonte: Il Fatto Quotidiano

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