di Stefania Jaconis*
La recente votazione del Congresso USA sugli aiuti militari all’Ucraina ha notevolmente ridotto l’apprensione sul possibile esito della guerra contro Kyïv, in quello che gli osservatori locali e internazionali ne definiscono ‘il momento peggiore’. È però, forse, questo anche il momento giusto per guardare alla questione da un punto di vista complementare. E cioè quello della capacità effettiva della Russia di portare avanti la cosiddetta ‘operazione militare speciale’. Una valutazione del genere può essere fatta sul breve periodo o su quello medio-lungo. Ma, soprattutto, può essere fatta con le lenti dell’ufficialità o con quelle, decisamente meno rosee, dei tanti osservatori e analisti ormai costretti a scrivere solo da Paesi stranieri.
Per iniziare con il colore rosa possiamo partire dai dati resi noti dal Ministero delle Finanze russo lo scorso 8 aprile in merito al Bilancio statale della Federazione Russa nel primo trimestre dell’ anno. Tali dati certificano un incremento di oltre il 50% delle entrate e, addirittura, per il mese di marzo un saldo attivo del Bilancio stesso di 867 miliardi di rubli (pari a circa $9 miliardi). Un andamento così favorevole è dovuto sicuramente all’alto prezzo del petrolio – il Brent in questi mesi si è mantenuto costantemente sopra gli $80, toccando anche i 90 dollari – ma anche alla nuova metodologia impiegata per calcolare gli oneri fiscali delle imprese del settore, che ora vengono gravate di importi che prescindono dal volume delle esportazioni.
Le maggiori entrate rivenienti dalle imprese non energetiche sono dovute, invece, agli alti tassi di crescita dell’economia russa: nell’ultimo World Economic Outlook il Fondo Monetario Internazionale ne ha ulteriormente alzato la stima, portandola al 3,6% nel 2023, mentre anche per il 2024 ipotizza un ritmo annuale pari al 3,2%.
Qui, però, è d’uopo un caveat: da poco dopo l’inizio della guerra in Ucraina la Federazione Russa con ordinanze successive ha secretato le informazioni relative a vari aspetti dell’economia nazionale, tra cui alcune, cruciali, riguardanti produzione e interscambio di materie prime. Sui dati resi pubblici – circa due terzi del totale disponibile nel periodo anteguerra – vale in misura crescente lo scetticismo che gravava sui dati statistici rilasciati dalle autorità sovietiche. Per quanto riguarda gli organismi internazionali, invece, il caveat è derivativo, in quanto le loro stime si basano sui dati forniti dagli organi statistici nazionali.
In ogni caso l’aumento del PIL russo – qualunque sia la sua entità – è trainato attualmente dalla domanda interna, alimentata dalla spesa militare e dalle ricadute di questa sulla produzione nazionale.
Alcuni commentatori e analisti russi amano impiegare l’espressione ‘keynesismo bellico’ per descrivere la situazione attuale, nella quale l’elemento ‘guerra’ ha ormai un peso estremamente cospicuo: secondo il SIPRI Stockholm International Peace Research Institute la spesa militare della Russia nel 2023 ha rappresentato il 24% della spesa totale: includendovi anche i costi sostenuti dal Governo per la sicurezza interna, la cifra lievita fino al 40% degli esborsi totali.
Una pressione così forte sul lato della domanda (non solo pubblica, ma anche privata) fa di quella russa un’economia in piena fase di ‘surriscaldamento’ – caratteristica per altro rafforzata dalla tensione sul mercato del lavoro, che risente della carenza di mano d’opera causata dalla bassa natalità e dell’impegno di molti uomini al fronte. Come noto, un’economia surriscaldata ingenera normalmente tensioni inflazionistiche: finora la Russia ufficialmente è riuscita a controllare la spirale dei prezzi, il cui tasso di crescita annuale si mantiene su valori attorno al 6-7% (il valore obiettivo è il 4%).
Ma ritorniamo al caveat di cui sopra: il centro studi di Dmitrii Potapenko stima che l’aumento annuo effettivo dei prezzi dei beni alimentari sia attualmente pari al 22-23% (alcuni parlano di valori attorno al 25-30% per alcuni degli stessi beni), mentre anche un economista che opera nel paese, Oleg Vyugin, già presidente della Borsa di Mosca, ha sostenuto giorni fa che l’inflazione ‘reale’ é sicuramente superiore al tasso ufficiale di riferimento della Banca Centrale, oggi pari al 16%.
Tiriamo le fila di quanto detto.
Possiamo sottoscrivere la vulgata secondo cui l’economia della Russia avrebbe una resilienza tale da permetterle di continuare la guerra ad infinitum? Assolutamente no, e per vari motivi. Innanzitutto, l’ipotesi del controllo sull’inflazione in un periodo medio-lungo è assolutamente teorica, mentre quello che è certo è il dato relativo all’incremento costante della spesa pubblica, precipuamente militare. Ci si può chiedere quanto tutto questo peserà in futuro sulle casse statali russe. E qui ci soccorre il Bilancio programmatico (pubblicato) per il periodo 2024-2026, nel quale per il servizio sul debito si prevedono uscite superiori al 10% della spesa globale. Ossia più di quanto destinato a sanità e istruzione.
Oltre alla nota arma della svalutazione del rublo, l’opzione meno dolorosa per ovviare a un costo che rischia di diventare insostenibile è naturalmente, come sostiene l’economista Igor Lipsitz (tra i fondatori della prestigiosa Scuola Superiore di Economia, ma oggi all’ estero), quella di un futuro incremento delle tasse, molto probabile nella prossima, annunciata, ‘riforma fiscale’.
Questo per quanto riguarda gli aspetti finanziari. Ma guardiamo all’economia reale. Qui entra decisamente in ballo il discorso – spesso sottovalutato o mal condotto – del ‘peso’ della sanzioni occidentali. Se il costo per il Paese delle sanzioni è stato meno rilevante di quanto auspicato per un periodo di quasi due anni, al contrario a partire dal dicembre del 2023, con l’affinamento e l’ampliamento delle misure adottate (ma soprattutto con l’inizio delle sanzioni secondarie, che vanno a colpire i Paesi che evadono), si può dire che è difficile trovare un settore produttivo del Paese che non risulti in qualche modo toccato dalla ‘risposta’ occidentale alla guerra.
La mancanza di pezzi e materiali che non vengono più importati dall’occidente pone seri limiti alle possibilità produttive di settori quali l’aeronautica, la farmaceutica, la meccanica e l’elettronica. Ma soprattutto rischia di avere effetti catastrofici sulla gestione e l’ammodernamento di infrastrutture molto spesso obsolete. Il recente allagamento della diga di Orsk, nella zona degli Urali, è solo l’ultimo di una serie di eventi ‘naturali’ che sono stati in realtà resi possibili da strutture obsolescenti e macchinari non revisionati da anni. Un settore particolarmente fragile è quello dell’aviazione civile, oggi fortemente penalizzato dalla maggior attenzione dedicata a quella militare: il risultato è che nel corso del 2023 in Russia si sono avuti ben 180 incidenti aerei: più del doppio di quelli verificatisi nel 2022.
Possiamo dunque ipotizzare che l’economia russa (“la prima in Europa e la quinta al mondo”, secondo Putin) si sta in realtà avviluppando in una spirale simile a quella che portò prima al default e successivamente al crollo dell’Unione Sovietica? Una lettura accurata della situazione attuale del Paese, e di quella prevedibile nel prossimo futuro, rende attuale un simile interrogativo.
*Stefania Jaconis
già docente di Sistemi Economici Comparati
Sapienza Università di Roma