di Alfonso Tuor
Ogni giorno siamo informati sulla guerra in Ucraina e su quella a Gaza, ma vi è un altro conflitto in corso, quello commerciale tra Stati Uniti e Cina, cui si presta meno attenzione, ma che a lungo termine è altrettanto pericoloso.
Esso è iniziato con l’imposizione di tariffe sulle esportazioni cinesi da parte dell’amministrazione Trump, che poi sono state confermate ed estese da Joe Biden, che ha tra l’altro bloccato l’esportazione di chips americani di ultima generazione verso la Cina per motivi di sicurezza.
Queste misure hanno contribuito secondo l’Unctad, l’Ufficio per lo sviluppo dell’ONU, a ridurre l’anno scorso del 5% il valore del commercio internazionale.
Esse non paiono sufficienti, poiché l’economia cinese in forte difficoltà a causa della crisi del mercato immobiliare e di una crescita relativamente molto debole, si prepara a scaricare le proprie enormi sovracapacità, soprattutto nelle automobili elettriche e nei pannelli solari, sui mercati occidentali.
È quindi prevedibile che sia gli Stati Uniti sia l’Unione europea adottino nuove misure restrittive per non essere invase da altri prodotti «made in China» estremamente competitivi sia a livello di qualità sia a livello di prezzi. Quindi lo scontro commerciale appare destinato a crescere.
Pechino non è comunque restata con le mani in mano. Infatti ha moltiplicato i trattati di libero scambio e gli investimenti diretti con Paesi che dovrebbero permettere di sfuggire alle restrizioni occidentali.
Infatti, circa il 38% del totale delle esportazioni cinesi che ammontano a 3.400 miliardi di dollari vanno a 140 Paesi coperti da questo genere di accordi. Essi comprendono i Paesi dell’Asean, l’organizzazione dei Paesi del Sud-Est asiatico, la maggioranza degli Stati africani e presto anche i Paesi produttori di petrolio del Golfo.
Verso questi ultimi la Cina ha esportato l’anno scorso 112 miliardi di dollari e ha importato il 40% delle sue importazioni di petrolio.
Accanto a questa strategia Pechino ha lanciato quella del cosiddetto «nearshoring» che consiste nel creare nuove capacità produttive nei Paesi che fanno parte dell’Unione europea, del Nafta (Stati Uniti, Canada e Messico) e soprattutto dell’Asean.
Le esportazioni verso i Paesi occidentali sono spesso prodotti cinesi impacchettati nei Paesi del Sud-Est asiatico per evitare i dazi. I dati rivelano infatti che l’export di Pechino verso Malesia, Vietnam, Filippine e Indonesia nei primi sei mesi di quest’anno sono salite dell’80% raggiungendo i 49 miliardi dollari.
Sono pure saliti gli investimenti diretti che hanno superato quelli americani.
Il medesimo fenomeno sta ripetendosi nell’Europa dell’Est. In questo caso la Cina si concentra nel settore delle macchine elettriche. Pechino infatti investe in nuovi impianti per produrre batterie e automobili e ha aumentato l’esportazione delle componenti. Lo stesso fenomeno sta avvenendo in Messico dove gli investimenti diretti cinesi sono aumentati del 40%.
Questa strategia mette in difficoltà Washington. Infatti bloccare quest’attività di Pechino costringerebbe questi Paesi a fare una scelta molto critica tra le due superpotenze. Infatti è stato calcolato che tagliare i ponti con Pechino provocherebbe un calo del 4,7% del loro PIL.
D’altro canto, non intervenire vorrebbe dire per Washington mancare l’obiettivo di non continuare a dipendere dalle linee di approvvigionamento cinesi. Inoltre paradossalmente questo processo è destinato a rafforzare i legami finanziari e commerciali tra la Cina e questi Paesi che sono spesso alleati dell’America, che non è certamente l’obiettivo che perseguiva l’amministrazione Biden.
Insomma, liberarsi dai tentacoli cinesi non è facile, anche perché Pechino sta silenziosamente costruendo un nuovo ordine internazionale che è immune dalle sanzioni americane.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato da Corriere del Ticino, che ringraziamo