La definizione di «follia» è: fare sempre la stessa cosa aspettandosi esiti diversi. Alitalia è l’esempio perfetto di una follia bipartisan. Alberto Mingardi, in un fondo su la Stampa, commenta la difficile situazione dell’Alitalia. Nel 2008, la cessione a AirFrance venne bloccata dall’allora centro-destra, innamorato dell’idea di consegnarla a un gruppo di capitani coraggiosi battenti bandiera italiana, sia pure digiuni di aerei e aviazione. Nel 2013 fu il governo Letta a riportare lo Stato, almeno con un piedino, in Alitalia, attraverso un investimento da parte di Poste Italiane. Nel 2017, dopo che sindacati e azienda (allora il socio forte era Etihad) avevano firmato un accordo per un piano pluriennale che riducesse i costi e provasse a rilanciare la compagnia, i dipendenti votarono contro il progetto. Lo fecero con fredda razionalità: visti i precedenti, era legittimo aspettarsi che lo Stato si precipitasse a salvare l’azienda. Così puntualmente è avvenuto, col governo Gentiloni che ha elargito un «prestito ponte» di 600 milioni di euro (e altri 300 dopo qualche mese).
Si era messo in moto un meccanismo che ha reso inevitabile il ritorno alla proprietà pubblica. Il governo del «cambiamento» non ama il «neoliberismo», che associa alla stagione delle privatizzazioni. Lo Stato si appresta, fra Mef e Ferrovie, a diventare azionista di maggioranza. Per trovare un partner industriale ci si è rivolti a Delta, che dovrebbe avere un 15% dell’azienda e portare un po’ di know how. Il resto dell’azionariato farà capo a una compagine di imprenditori. Se la questione è «prima gli italiani», ci sono altre compagnie che ne trasportano di più. La quota di mercato di Alitalia segnala che gli stessi italiani potranno essere «sovranisti» nell’urna, ma quando debbono decidere con chi viaggiare scelgono senza remore operatori internazionali. Se il problema sono gli occupati di Alitalia, concentrati attorno alla città di Roma e forse per questo più cari di altri alla politica, costerebbe sicuramente di meno farsi carico direttamente delle loro sorti anziché di quelle della loro azienda.
tratto da Alberto Mingardi, La Stampa