di Andrea Fabozzi
È tanto assurda e tanto scritta male che non potrà in ogni caso arrivare in porto così come l’hanno presentata ieri, la riforma della Costituzione firmata da Giorgia Meloni. Ma proprio perché è così assurda e così scritta male è molto pericolosa e va contrastata da subito.
In mezzo a norme che si contraddicono e a commi che inquinerebbero il rigore della Carta, emerge un unico obiettivo chiaro: elezione diretta, il resto si vedrà. È insieme l’apoteosi ideologica e il fallimento tecnico delle trentennali (almeno) tentazioni verticistiche che hanno accompagnato i più diversi governi italiani. Ci si preoccupa di innalzare un capo o una capa, senza occuparsi troppo del sistema istituzionale che gli sta o le sta accanto.
La maggioranza e i suoi tifosi – anche in cattedra – hanno voglia di dire che «l’equilibrio non cambia, i poteri del presidente della Repubblica non cambiano, il ruolo del parlamento non è sminuito», non è così nella forma e non lo sarebbe per niente nella sostanza.
La vaghezza del contorno esalta i rischi. Se il confine del mandato popolare non è chiaro, si può star certi che tenderà a espandersi. Accade già adesso – in questa Repubblica parlamentare di cui ci si vuole liberare come fosse un ente inutile – nella quale il presidente del Consiglio è un primo tra pari e si racconta e muove invece come un «premier» condottiero, o condottiera.
Nel mezzo di un diluvio di decreti legge, fiducie, stati di emergenza, video alla nazione, invece di preoccuparsi dell’ombrello si chiede ancora altra acqua. Se un parlamento silenziato, una maggioranza obbediente e un esecutivo tutto in famiglia ancora non bastano a far andare «la macchina», non sarà l’elezione diretta a infondere capacità di governo. L’incoronazione a furor di popolo si dimostrerà utilissima, però, a tirare la corda della delega. Non più solo a chiedere, ma stavolta a prendersi i «pieni poteri».
La presidente del Consiglio che viene da una storia estranea al patto costituzionale prova così, maldestramente, a rottamare nella sostanza il patto fondativo della Repubblica. Non si esagera. Nei cinque sgangherati articoli della riforma appare una forma di governo inedita, non solo per l’Italia. È la proposta più pericolosa, perché più estrema, tra quelle, pessime, portate avanti negli anni passati (Berlusconi, poi Renzi) e fermate dal referendum popolare. Ma è anche, come da tradizione, uno straordinario strumento di distrazione dalle tristezze della politica corrente – una legge di bilancio miserella, i primi malumori nella base elettorale della destra, una serie infinita di brutte figure che coinvolgono palazzo Chigi e gli altri ministeri. Come sempre e com’è stato anche per la parte politica opposta, la Costituzione da cambiare è l’alibi preferito di chi non sa o non vuole governare nel suo solco.
Su questo panorama da far paura, si staglia la figura stessa della presidente del Consiglio, erede designata della terza Repubblica a conduzione monocratica. La sua inconciliabilità con gli equilibri costituzionali traspare in ogni mossa e dichiarazione. Come se la pretesa di irrigidire nella Carta il sistema elettorale e il premio di maggioranza al 55% («minimo»), l’introduzione del mandato imperativo per i parlamentari, la non previsione di un limite ai mandati non bastassero, ha spiegato che la sua riforma scolpirà in Costituzione il programma elettorale. Cosi che, ha avvertito solenne, non rispettarlo sarà «incostituzionale».
C’è da piangere, ma anche un po’ da ridere andando a controllare il programma con il quale lei stessa si è presentata alle elezioni. Prometteva l’elezione diretta del presidente della Repubblica, non questo premierato «all’italiana». Prendendola in parola, dunque, anche la sua riforma è incostituzionale. E lo è in effetti, anche se Meloni non ha capito il perché.
Fonte: Il Manifesto