L’Italia è il Paese che registra il secondo tasso più alto di self-employed (lavoratori autonomi) in Europa: il 21% degli occupati, dietro solo alla Grecia (29%) e sei punti percentuali sopra una media Ue del 14 per cento. Lo rivelano gli ultimi dati Eurostat, calcolati su un totale di 30,6 milioni di persone auto-impiegate in Europa tra i 15 e i 64 anni di età.
All’estremo opposto dell’accoppiata Italia-Grecia, emergono paesi come Germania, Estonia, Lussemburgo, Svezia (9%) e Danimarca (8%). Un confronto che non gioca a favore della Penisola, se si considera che economie come quella danese e tedesca godono di tassi di disoccupazione schiacciati rispettivamente al 4,3% e al 3,7% contro il circa 11% dell’Italia.
Come spiega Stefano Liebman, ordinario di Diritto del lavoro alla Bocconi, l’etichetta di self-employed nasconde spesso condizioni diverse: dalla disoccupazione ai rapporti di lavoro classificati come autonomi pur essendo, nei fatti, subordinati. «Non dimentichiamo che buona parte di questi self-employed sono “finti” – dice – perché si parla di rapporti di subordinazione mascherati o di persone che ripiegano sull’autoimpiego».
Self-employed di nome, instabili di fatto. Il quadro offerto da Liebman trova riscontri sia nell’identikit medio dei lavoratori auto-impiegati sia nei settori principali di attività che emergono su scala europea. Secondo la fotografia scattata da Eurostat, il self-employed medio viaggia sopra i 45 anni di età nel 55% dei casi e svolge un’attività lavorativa senza dipendenti (l’equivalente di un freelance) nel 71% delle situazioni. I settori che attirano più lavoratori autonomi sono vendita al dettaglio e riparazione di veicoli a motore (4,8 milioni, il 16% del totale europeo), agricoltura e pesca (4,4 milioni, il 14%), costruzioni (3,9 milioni, 13%).
Le attività professionali, scientifiche e tecniche incidono in maniera minore, il 12%, per un totale di 3,7 milioni di individui coinvolti. Su questo sfondo, il record italiano sembra gonfiato da due fattori: «Da un lato c’è l’uso improprio che si è fatto a lungo di formule come i co.co.co (collaborazioni coordinate continuative), dove si facevano passare per autonomi dei dipendenti – spiega Liebman – Dall’altro c’è una forma di ripiego che parte dagli stessi lavoratori: con un accesso al mercato del lavoro così fragile molti pur di lavorare fingono di essere autonomi». Insomma: in questo caso la suggestione della carriera indipendente e del freelancing sembrano avere poco a che spartire con la realtà di un lavoro che è “autonomo” perché è, soprattutto, instabile: «Non sono le oltre 7mila startup italiane a creare i lavoratori “autonomi” – spiega Liebman – Ma la situazione di instabilità che riguarda chi cerca lavoro».
Un popolo di giovani freelance (involontari). Tra le categorie sensibili al fenomeno, sempre in Italia, ci sono i giovani. La definizione di self-employed ricorre nell’ampia quota di popolazione under 35 che lavora al di fuori del perimetro tradizionale dei contratti. Sempre secondo fonti Eurostat, il 35% degli occupati che si qualifica come freelance (lavoratori autonomi senza dipendenti) ha meno di 40 anni, sopra alla media continentale del 33%. «Si sono abituati all’idea – spiega Liebman – A furia si sostenere che il lavoro stabile non esiste, diventa più facile qualificarsi come self employed». E qui, secondo Liebman, pesa il «fallimento» delle politiche attive attuate in Italia.
Secondo dati Ocse riferiti al 2015, l’Italia spende per misure di inserimento attivo nel lavoro lo 0,5% del Pil contro il 2,05% della Danimarca, l’1,27% della Svezia e l’1% della Francia. La Germania viaggia poco sopra i nostri standard, con lo 0,63%, ma la percentuale va bilanciata alle differenze nel Pil. «Per far funzionare politiche attive servono soldi e personale qualificato, due fattori carenti in Italia – dice Liebman – In Germania, il personale preparato è pari a 10 volte quello presente in Italia».
Fonte: Il Sole 24 Ore