La gestione dei «flussi» dei migranti costa sempre più. Non c’è spending review che regga di fronte alle masse che attraversano il Mediterraneo e vengono portate in Italia.
Ce n’è traccia persino nel Def, con toni allarmanti. «Il deciso incremento dei flussi e delle presenze a fine 2016 si riflette nei dati oggi disponibili, che aggiornano al rialzo le stime presentate nel Documento Programmatico di Bilancio», spiega il documento di Economia e finanza approvato la settimana scorsa dal governo.
Il ministero dell’Economia piega che «In base ai dati attuali, le operazioni di soccorso, assistenza sanitaria, alloggio e istruzione per i minori non accompagnati sono, al netto dei contributi dell’Ue, pari a 3,6 miliardi (0,22 per cento del PIL) nel 2016 e previste pari a 4,2 miliardi (0,25 per cento del PIL) nel 2017, in uno scenario stazionario».
Cifre attese e, fino a ieri, citate come scenario peggiore. Ma il Def aggiunge dell’altro. «Se l’afflusso di persone dovesse continuare a crescere la spesa potrebbe salire nel 2017 fino a 4,6 miliardi (0,27 per cento del Pil)». Ci sono quindi in ballo spese extra per 400 milioni di euro. Quanti ne dovrebbe portare la stretta sulle accise prevista dalla manovra che sta per essere approvata dal governo. E in ogni caso, la spesa per migranti potrebbe superare per 1,2 miliardi il valore complessivo della manovra stessa, cioè qei 3,4 milairdi chiesti dall’Europa.
Un sacrificio a quanto pare incomprimibile. La spesa per la gestione dei migranti aumenta di anno in anno e va a braccetto con un’altra tendenza evidentemente inarrestabile. Quella ad aumentare le tasse.
Per il 2018, ad esempio, l’aumento dell’Iva diventa sempre più probabile. Il Documento di economia e finanza ha messo nero su bianco un deficit per il 2018 al 1,2%. Impossibile ottenere un risultato del genere senza aumentare almeno di uno o due punti l’aliquota ordinaria dell’Iva, oggi al 22%. Oppure, meno realisticamente, applicando alla lettera la clausola di salvaguardia fino ad oggi sempre sterilizzata, quindi portando l’imposta su beni e servizi al 25% nel 2018 e al 25,9% l’anno successivo.
Nel giorno di Pasqua, la prima mezza ammissione di Pier Carlo Padoan. In un intervista al Messaggero il ministro dell’Economia ha fatto capire che a lui non dispiacerebbe lasciarla aumentare, magari per tagliare il cuneo fiscale, cioè la differenza tra quanto un lavoratore costa al datore e il netto della busta paga. Poi ha anche spiegato che il taglio delle tasse potrebbe non andare alle imprese.
Innanzitutto l’Iva. Al giornalista che ricordava come l’Ocse abbia suggerito di aumentarla per tagliare il costo del lavoro, Padoan, che ha lavorato all’organizzazione di Parigi, ha risposto che questa ipotesi è «nei manuali di finanza pubblica». E che «è un’opzione sostenuta da buone ragioni». Il problema per il ministro è «quali tasse ritoccare».
Lo scambio tra Iva e cuneo fiscale «è una forma di svalutazione interna che beneficia le imprese esportatrici, che sono anche le più competitive». Una «ricetta classica» e «siccome sono anche un tecnico ricordo che nelle scelte politiche non si possono ignorare gli aspetti tecnici. E viceversa».
Meno chiaro cosa Padoan voglia concedere in cambio dell’aumento dell’Iva. Ancora aperta la strada di uno sgravio fiscale concentrato sul reddito e non sul lavoro. Quale sia la sua preferenza si capisce quando Padoan rivendica cosa è stato fatto: «La pressione fiscale si è abbassata, per le imprese è al di sotto di quella di Francia e Germania».Le associazioni datoriali da tempo temono un’inversione a U del governo e la rinuncia a tagliare le tasse sul lavoro.
Fonte: Il Giornale