di Max Brod
(WSC) ROMA – Sere fa ho seguito con interesse lo show concerto di celebrazione per il 70° anniversario di regno di Elisabetta II. E’ stato la quintessenza del pop style britannico, con sfarzo di luci, colori, scenografie giganti, costumi bellissimi, presenza sul palco di star evergreen, pubblico festante in un tripudio di bandierine con la croce di S. Giacomo. E un’attenta regia che ha dato spazio a tutte le etnie che hanno contribuito a far grande l’ex impero coloniale, indiani, afro, australiani. Per me che ho sempre amato le contraddizioni inglesi capaci di passare con disinvoltura dalle tradizioni secolari della City alla swinging London, al punk, alle trasgressioni più audaci è stato piacevole rivedere esibirsi, più eccentrici e colorati che mai, artisti come Rod Stewart, Elton John, Diana Ross e il creatore di musical Andrew Lloyd Webber.
Finita l’emozione per ciò cui avevo assistito è sopraggiunto però un senso di disagio senza che riuscissi a mettere a fuoco il perché. Non era per la monarchia. Dio salvi la Regina, e poi i sondaggi dicono che un suddito su due considera benevolmente la Corona e uno su tre ritiene indifferente se ci sia o meno. Non era nemmeno per lo spettacolo, impeccabile sotto ogni punto di vista. Che cos’era allora che non mi tornava? Forse, mi sono detto, stona l’immagine di un Paese che non è soddisfatto di come è e vorrebbe essere quello che era. Provo a spiegarmi.
Quest’anno fanno 40 dalla guerra per le Falkland-Malvinas, molti la ricorderanno, voluta da Margaret Thatcher per riaffermare la potenza britannica in un angolo remoto del mondo. Quell’episodio segna a mio avviso l’apice dell’identità inglese dell’ultimo secolo, e anche l’inizio del suo declino. Ai vertici del secolo di cui parlo ci sono da un lato lo sbarco in Normandia e dall’altro la decadenza e involuzione dell’attuale classe politica d’oltremanica. Consideriamo quest’ultimo aspetto.
I leader inglesi che si sono succeduti dopo la Thatcher sembrano aver perso di vista i target minimi che una media potenza come la loro dovrebbe avere sempre ben presenti. Ad eccezione del periodo blairiano, i governi che si sono succeduti sono stati per lo più conservatori e ciascuno dei premier di turno, a mio avviso, non ha saputo intercettare o ha colpevolmente travisato i primari interessi del Paese.
Non David Cameron che dopo una faticosa rincorsa a tassi di crescita economica positivi ha clamorosamente sbagliato nella valutazione degli esiti di un referendum sulla Brexit di cui nessuno sentiva il bisogno. E il Paese lo ha punito. Non Theresa May che ha impegnato tutto il suo talento politico, ammesso che ne avesse, nella sanguinosa trattativa di uscita dall’UE che ha lasciato scoraggianti segnali di recessione che si fanno sentire tutt’ora. Non Boris Johnson che prima ha gestito allegramente la pandemia da Covid mandando in confusione l’assetto socio-produttivo del Regno e ora, di fronte alla crisi Ucraina, si fa paladino del più tenace guerrafondismo e se la Regina glielo consentisse manderebbe la flotta nel mar Nero per non essere da meno della Thatcher.
Molti paesi nelle ultime decadi hanno dovuto rivedere il loro status e quasi sempre lo hanno fatto in senso riduttivo dando maggiore valenza alla cooperazione e alla concertazione con i partner. Non l’Inghilterra che sembra aver fatto proprio l’infausto motto mussoliniano “molti nemici molto onore” e lascia irrisolti problemi interni potenzialmente devastanti come l’autonomia scozzese e la paventata riunificazione irlandese che prima o poi verranno a scadenza. Dispiace che un Paese che ha avuto come premier personaggi come Winston Churchill e Harold Wilson, tanto per citarne un paio, dia l’impressione di un’auto in corsa senza freni. Chissà se chi verrà dopo Elisabetta saprà suggerire un’inversione di rotta.