di Daniela Rondinelli, deputata al Parlamento Europeo
I tempi della politica e della storia non sono gli stessi, figuriamoci in piena pandemia da coronavirus e soprattutto se chi dovrebbe dare risposte a cittadini, imprese e lavoratori è un’Unione di Paesi che in questi giorni sta dimostrando il peggio di sé in termini di solidarietà e coesione.
Vorrei riassumere così il risultato della risoluzione che abbiamo votato l’altro giorno al Parlamento Europeo sulle misure da prendere in materia economica e fiscale per reggere l’urto della crisi e porre le basi per il rilancio. E’ un indirizzo politico senza particolari ambizioni, a cominciare dal titolo che parla di azione “coordinata”; ma per fronteggiare i danni economici pari a quella di una guerra mondiale, non avremmo avuto bisogno di un’azione “comune”?
Se è vero che alcuni passaggi della risoluzione fanno intravedere uno spiraglio di luce, come il riferimento ai recovery bond, con l’auspicio che finalmente il Consiglio europeo del 23 aprile possa aprire un negoziato serio su questo strumento, credo che lo scenario internazionale ci debba far comprendere che non esiste alternativa ad uno scenario futuro europeo che veda la mutualizzazione del debito e la condivisione comune dei rischi.
Basti pensare che, ad oggi, già 102 Paesi su 189 hanno chiesto formalmente aiuto al Fondo Monetario Internazionale e, vista la crescita esponenziale dei contagi in tanti Paesi, la lista è destinata ad allungarsi.
Questo si lega al tema del rapporto deficit/PIL. Ormai è opinione diffusa tra gli analisti che quello italiano nei prossimi mesi potrebbe attestarsi intorno al 150%. Molto dipende dalla quota di produzione che perderemo a fronte dei tempi di riapertura graduale di tutte le attività. Ma se l’Italia ha fermato la sua produzione e lo stesso sta avvenendo nel resto dei Paesi del mondo, tutti dovremo affrontare il medesimo problema ossia la probabile riduzione a due cifre del PIL, facendo saltare ogni schema di stabilità economica e finanziaria.
E’ quanto mai bizzarro, quindi, continuare a sentire apprezzati economisti internazionali sostenere che l’impatto della crisi possa essere circoscritto solo ad alcuni Paesi, con il secondo malcelato fine di spogliare detti Paesi delle aziende strategiche a prezzo di saldo, con l’Italia in cima alla lista dei desideri. Nessun Paese europeo si salverà se rimaniamo inerti o peggio ancora lenti nell’assumere le decisioni rispetto al peggio che deve ancora arrivare.
Le misure attivate finora da grandi potenze sono orientate solo a proteggere i loro ecosistemi economici e finanziari esistenti e mantenere al loro interno quanta più liquidità possibile. La Cina, addirittura, sta dimostrando più di un’esitazione ad attivare misure interne pur essendo il primo paese ad aver fronteggiato l’epidemia e le sue conseguenze economiche, probabilmente per non accrescere a dismisura il proprio indebitamento. Così chi auspica un “piano Marshall” forse dimentica che nel secondo dopoguerra ci fu un Paese, gli Stati Uniti per l’appunto, che si fecero carico della ricostruzione e del rilancio dell’intero continente europeo. Mentre oggi nessuna potenza o Paese è in grado di tendere una mano all’Europa.
E’ evidente quindi che dobbiamo trovare noi europei – all’interno dell’Unione – tutta la potenza di fuoco necessaria a dare un futuro dignitoso ai nostri cittadini – contrastando le povertà e le diseguaglianze sociali che rischiano di accentuarsi – e un mercato interno in grado di sostenere e rilanciare le imprese e il tessuto produttivo.
Volendo volutamente tralasciare le dialettiche e le polemiche che in queste ore si stanno consumando nel nostro Paese a proposito del voto alla risoluzione, è indubbio che l’apertura di questi giorni del Parlamento Europeo ai recovery bond, cosa inimmaginabile appena un mese fa, ci dimostra che tutto sta cambiando, ma anche che l’Europa è sola in questa partita.
Gli schemi più idonei a consentire un rilancio passerebbero per l’avvio di un mastodontico progetto multilaterale che coinvolga tutti. Ma che risultati si possono attendere in questo senso quando, con poche eccezioni come il Governo Italiano, i principali attori di questo processo sono notoriamente conosciuti come i campioni del bilateralismo?
Saranno, quindi, i tempi della storia – o i tempi di diffusione del coronavirus – a far ricredere gli ultimi scettici sulla necessità di un cambio di paradigma. Altro che il MES e le sue condizionalità ancora rivendicate da qualche rigorista del nord Europa! Questo significa che strumenti come i coronabond (bocciati in aula dell’europarlamento) prenderanno corpo inevitabilmente nelle prossime settimane o nei prossimi mesi, quando saremo nel pieno di una crisi di liquidità che imporrà a tutti, nessuno escluso, di attivare qualunque strumento possibile per tenere in piedi non un Paese o una regione, ma l’intero pianeta. E’ probabile che ciò avverrà, a meno di sorprese più che benvenute già nella prossima settimana, con quel colpevole ritardo che renderà tutto molto più difficile e che scaricherà il costo più pesante sugli ultimi e i più deboli.
Mi sembra allora che nel prossimo futuro due variabili rilevanti potrebbero influenzare positivamente il futuro dell’Europa: le elezioni americane e la presidenza tedesca dell’Unione nel secondo semestre del 2020. Un ipotetico avvicendamento tra Trump e Biden potrebbe essere foriero del rilancio del multilateralismo, indispensabile per superare questa crisi. In particolare, un maggiore impegno e presenza degli Stati Uniti sullo scenario globale come potenza trainante delle dinamiche geopolitiche ed economiche, rilanciando la storica alleanza con l’Europa, porterebbe giovamento a tutti e lo sviluppo di nuove economie di scala.
Altro elemento chiave, per ora rimasto più sotto traccia, è il ruolo che Angela Merkel, giunta alla fine di una lunga carriera politica e senza stress da rielezione, potrebbe ambire a giocare per se stessa attraverso la vetrina europea; per non passare alla storia come quel leader che ne ha scritto l’epitaffio ma come quella statista che è stata capace di assicurare un nuovo rinascimento al progetto europeo.
Ma le elezioni americane sono lontane e il 1° luglio – data di inizio della presidenza tedesca – appare una data comunque distante dall’emergenza quotidiana in cui viviamo, mentre serve subito tempismo, azione e coraggio. Tutto quello che il Governo Italiano sta dimostrando sistematicamente sui tavoli europei in queste settimane, come forse mai il nostro Paese è stato in grado di fare nel corso di questi ultimi decenni, e di questo ne stanno prendendo consapevolezza i nostri partner europei.
Infatti non credo che sia casuale che la Presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen, nel suo discorso al Parlamento europeo, abbia chiesto pubblicamente scusa all’Italia per la sottovalutazione e indifferenza che l’Unione ha avuto nei nostri riguardi quando è scoppiata l’epidemia. E noi, come popolo italiano, queste scuse le dobbiamo accettare per onorare le migliaia di persone che hanno perso la vita.
Stiamo percorrendo una via per la gran parte già tracciata e i tempi della risposta europea al collasso economico e sociale ci diranno se questa crisi durerà solo alcuni mesi o lascerà danni irreversibili su noi stessi e sulle nostre future generazioni, anche dopo la scoperta e la diffusione su scala globale di un vaccino tanto atteso.
Sarebbe bello risvegliarsi il 24 aprile e trovare finalmente sul piatto – dopo una probabile notte di trattative in Consiglio – un nuovo ambizioso progetto europeo da costruire dall’inizio tutti insieme.
Questo articolo è stato orginariamente pubblicato da Affaritaliani.it, che ringraziamo