di Marco Marazzi
(WSC) ROMA – Il fine giustifica i mezzi si dice. Ma a volte i mezzi usati per raggiungere i fini tendono ad allontanarli o a stravolgerli del tutto. Prendiamo due vicende relative ai rapporti tra USA e Cina che coinvolgono anche Italia e Europa.
La prima è la “saga” relativa a Tik Tok: il social di proprietà di un’azienda privata cinese entrato nel mirino dell’amministrazione Trump letteralmente da un giorno all’altro a inizi di luglio. Ad essa è collegata la saga, meno nota ma non meno importante per gli effetti indiretti che ha generato, di WeChat. La seconda vicenda è quella dei dazi a merci cinesi imposti unilateralmente dall’amministrazione Trump, la gran parte dei quali è stata dichiarata illegale da un tribunale ad hoc dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (“WTO”) con sentenza del 15 settembre.
Partiamo dalla prima: le motivazioni dietro l’attacco alla app cinese, che pure aveva già preso varie misure per “separare” le attività cinesi da quelle estere, sono di difficile decifrazione. Poco credibile “la minaccia alla sicurezza nazionale” derivante dall’uso di un app per video musicali da parte di decine di milioni di utenti americani; minaccia che comunque per portare ad un divieto deve essere “unusual and extraordinary” in base al diritto USA.
Abbastanza difficile crederlo, non si tratta di un attacco hacker. Resta la motivazione più prettamente politica, con diversi gradi che vanno dall’improbabile (Trump irritato perché un migliaio di giovani utenti gli aveva rovinato un comizio a inizi luglio), a quello più pericoloso per il precedente che viene a creare: un tentativo di “punire” un paese straniero “in qualche modo”, colpendo però un’azienda privata nel cui capitale c’erano di fatto già investitori USA.
Non sembra invece che esista alcun collegamento tra l’attacco e il fatto che vari social di matrice USA, da Facebook a Twitter, passando per Youtube e Google, sono di fatto inaccessibili in Cina.
Un’amministrazione americana normale avrebbe posto il tema come uno di reciprocità, facendo notare anche ai cittadini cinesi che questa inaccessibilità è del tutto anacronistica, ma lasciando agli USA la palma di mercato libero, chiedendo alla app solo di seguire le regole privacy americane, come già faceva. Che poi è la posizione europea.
Al contrario, con le minacce dell’amministrazione Trump, e i vari “ultimatum”, cui sono seguiti tentativi da parte di società americane di acquistare Tik Tok USA l’impressione è stata quella di un “quasi” esproprio, con una reazione molto ostile tra la gente comune in Cina. Risultato: i social americani sono ancora di fatto inaccessibili in Cina e i cittadini sono convintissimi che gli americani vogliano impedire ad aziende tecnologiche cinesi di crescere anzi le vogliano comprare a poco prezzo.
La seconda vicenda, quella dei dazi che hanno sconvolto l’economia mondiale per due anni, è ancora più significativa. L’intenzione qui, sic ed simpliciter, era quella di colpire lo squilibrio commerciale tra Cina ed USA: gli USA importavano molto di più di quello che riuscivano ad esportare in Cina.
Il problema, resta inteso, non è banale e nemmeno di facile soluzione in quando ci sono prodotti che, non sempre per ragioni di costo, ormai vengono fatti da tempo quasi esclusivamente in Cina. Anche da aziende americane.
La Cina poi, sebbene abbia abbassato notevolmente le tariffe di importazione per anni, mantiene ancora qualche barriera non tariffaria. L’Europa, che ha un problema simile anche se di minor gravità, da tempo si è concentrata quindi su questi due aspetti: i sussidi, palesi o dissimulati, ad alcuni prodotti destinati all’export da parte della Cina (che sono vietati dal WTO) e il problema collegato del dumping.
E il secondo: quello delle barriere non tariffarie. L’azione USA invece ha semplicemente preso una “lista” di prodotti senza provare se questi erano soggetti a sussidi specifici e vietati dal WTO, né se ci fossero problemi di dumping. Lo ha fatto per fini negoziali onde costringere la Cina ad importare di più, soprattutto prodotti agricoli USA. Impegno che la Cina alla fine ha preso agli inizi di gennaio, prima però della pandemia che ha cambiato tutto.
I risultati non sono entusiasmanti: il surplus commerciale cinese verso gli USA è aumentato durante la presidenza Trump, le importazioni da USA continuano ma a causa del rallentamento dell’economia cinese sono lontane dagli impegni quasi impossibili presi a gennaio. Inoltre, negli anni scorsi quelle aziende americane che producevano in Cina per export, colpite dai dazi, hanno per lo più spostato fabbriche in altri paesi in via di sviluppo, raramente in USA.
Per finire, innalzando i dazi fino a 3 volte solo su prodotti cinesi e violando quindi il principio base del WTO (la MFN clause) gli USA si sono esposti ad una facile vittoria legale della Cina.
Risultato: le aziende private cinesi continuano a soffrire come le aziende straniere la concorrenza di quelle di Stato che più facilmente hanno sussidi pubblici; il deficit commerciale americano non è calato come sperava Trump e i cinesi hanno avuto una vittoria morale in sede WTO.
Dico morale perché, per aggravare la situazione, sembra che non ci sia alcuna intenzione USA di rispettare la sentenza del WTO; né possono appellarla perché da un anno bloccano la nomina dei giudici della corte d’appello (!).
Se veramente questa sarà la decisione degli USA, Europa, Cina e altri paesi non potranno che prendere atto che il fondatore del WTO si è messo fuori dal sistema e vuole giocare con le sue regole e le sue soltanto.
Un tipico caso in cui i mezzi prendono i fini in ostaggio e gli fanno cambiare connotati.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato con il titolo “Usa-Europa e Cina: quando i mezzi allontano i fini” su GliStatiGenerali, che ringraziamo.