di Beniamino A. Piccone
(WSC) Roma – Uno dei motti preferiti da Margaret Thatcher (1925-2013), tenace primo ministro inglese degli anni Ottanta (1979-1990) era: “Non esistono soldi pubblici, ma soldi dei contribuenti”. In Italia, siccome i contribuenti sono solo una parte della popolazione – dalle ultime dichiarazioni sui redditi, ben il 44% non paga l’Irpef, dichiarando meno di 15mila euro lordi l’anno -, le risorse pubbliche vengono spese a capocchia, senza alcuna priorità, né raziocinio.
L’ultimo decreto cosiddetto “Rilancio” è frutto di una cultura profondamente sbagliata, dove lo Stato svolge il consueto ruolo paternalista e l’individuo è considerato sempre bisognoso. Da qui il ricorso ad un assistenzialismo che non prevede condizionalità. Fioccano mance ed “ecobonus”. E’ sufficiente aggiungere il suffisso “eco”, per giustificare le peggiori nefandezze, mentre la Ragioneria di Stato fatica a trovare le coperture.
Che senso hanno i voucher per le vacanze quando non si riesce a mettere insieme il pranzo con la cena? Come ha scritto Angelo Panebianco “la distribuzione a pioggia delle risorse è coerente con una tradizione culturale avversa allo sviluppo economico e al lavoro produttivo”. La cosa sorprendente è l’ostilità al profitto e la predisposizione a favorire la rendita, per cui le imposte sulle locazioni e sui redditi finanziari hanno aliquote favorevoli e non contribuiscono al reddito complessivo, beneficiando della mancata progressività delle aliquote Irpef.
La coalizione di governo ama distribuire le risorse ma non lascia spazio ai privati, che sono coloro che, col lavoro e l’intelligenza (“non v’è lavoro, non v’è capitale, che non cominci con un atto d’intelligenza, Carlo Cattaneo, cit.) creano l’imponibile fiscale, sul quale gravano imposte e tasse, che servono per sostenere e garantire i servizi pubblici.
A molti cittadini, e financo a molti ministri, non è chiaro questo punto: è l’economia privata che consente allo Stato di pagare stipendi, di far funzionare la giustizia, gli ospedali e l’ordine pubblico. Se le risorse finiscono, si deve ricorrere al deficit e al debito, cosa che sappiamo fare benissimo. Ma lo abbiamo potuto fare solo grazie all’Europa, che insieme all’euro, garantisce all’Italia un accesso al mercato a tassi bassissimi. Se fossimo fuori dalla moneta unica, i tassi di interesse sul debito sarebbero già volati alle stelle.
La retorica della ricostruzione non ci piace affatto. Nel dopoguerra ci si rimboccò le maniche, senza fare affidamento su aiuti o sussidi pubblici. La fatica e il desiderio di uscire dalla miseria sono state le forze del Paese. Come ha scritto il decano del Censis Giuseppe De Rita, “stiamo diventando un Paese sovvenzionato ad personam, idea che non sfiorava la generazione della guerra”. Pensare che lo Stato possa farsi carico di 60 milioni di italiani è follia.
Il Presidente del Consiglio dovrebbe farsi portatore di un messaggio di verità andando in televisione per rivendicare la parresia, la franchezza del pensiero forte. Saremmo molto lieti di sentirgli dire che l’azionista di maggioranza (il Ministero dell’Economia) ha presentato la richiesta di fallimento per Alitalia, così da bloccare l’enorme travaso di risorse in un secchio bucato.
Non si possono letteralmente buttare al vento nel 2020 altri 3 miliardi quando gli edifici scolastici cadono a pezzi. I sindacati che chiedono per Alitalia le massime tutele dopo aver ottenuto (non si sa come) per i lavoratori ben sette anni di cassa integrazione straordinaria sono fuori dal mondo.
La politica, come diceva Luigi Sturzo (1871-1959), è servire, non servirsi. E servire significa lasciare spazio alla molteplicità di soggetti sociali – imprese, famiglie e individui – che ventre a terra si sbattono per competere sui mercati internazionali (vedasi i successi delle nostre multinazionali tascabili) o sui mercati domestici, ancora pieni di “lacci e lacciuoli” e di regole corporative. Prima di redistribuire, bisogna che ci sia crescita economica.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato da La Gazzetta del Mezzogiorno, che ringraziamo.