di Riccardo Redaelli
È una tendenza quasi irresistibile quella di guardare alle tante, troppe crisi in atto nel mondo come alle tessere di un singolo puzzle che si sta ricomponendo, per leggerle in modo unitario. Si tratta invece di una visione profondamente sbagliata, che sta portando l’Occidente a percepire il sistema internazionale come ripolarizzato, ritornando ai comodi schemi mentali della guerra fredda, quando tutto il mondo era diviso in due sole parti: da un lato, noi – i buoni –, dall’altro, l’oppressivo blocco comunista.
Muovendo da questa prospettiva, si parla spesso di un confronto globale fra democrazie contro sistemi dittatoriali, come se tutti gli Stati liberali fossero alleati nell’impedire l’affermazione di un sistema coeso di autocrazie. E così, in questa narrativa si lega l’aggressione russa all’Ucraina all’attacco di Hamas del 7 ottobre o le minacce cinesi a Taiwan al cosiddetto “asse della resistenza” creato dall’Iran, che ha ora colpito direttamente e pericolosamente le forze militari statunitensi dislocate fra Siria e Giordania. E a cui bisogna aggiungere i periodici ritorni degli attentati jihadisti, che hanno in questi giorni di nuovo preso di mira – questa volta in Turchia – le minoranze cristiane in Medio Oriente e i loro edifici religiosi.
Per quanto comprensibile, si tratta di una lettura illusoria delle dinamiche geopolitiche, che attua una confortevole distinzione fra amici e avversari, ma che non rispecchia la ben più complessa realtà delle relazioni internazionali. E che fornisce una interpretazione del tutto distorcente della famosa, quasi profetica frase, di papa Francesco sulla “guerra mondiale a pezzi”. Una visione che non voleva essere dicotomica o spingere a interpretare i conflitti in corso e le tensioni come fossero le pedine di una unica partita a scacchi fra due giocatori. Anzi, il messaggio – si pensi alle parole dell’enciclica Fratelli tutti – voleva invitare a una lettura diversa, per spingere a concentrarsi su ogni singola crisi al fine di depotenziarla e di risolverla attraverso un “artigianato della pace” che coinvolgeva tutti, amplificando non già la percezione di essere diversi, quanto piuttosto quella di essere parte di una più ampia e superiore comunità, quella della persona umana.
Non casualmente, al di fuori dei Paesi occidentali, questa visione ripolarizzante delle relazioni internazionali è molto più osteggiata: Paesi “alleati” dell’Occidente, come Egitto o Arabia Saudita, sono sempre più legati alla Cina, e rifiutano di schierarsi. Sarebbe sciocco tanto considerarli parte del campo delle democrazie – che certo non sono – quanto legati a un disegno a noi ostile. Ancora più ambigua la posizione di Paesi come la Turchia, pur membro della Nato, o di un’Algeria che noi italiani abbiamo blandito per ottenere maggiori forniture di gas dopo il distacco da quello russo. Pochi esempi fra i tanti, che mostrano come, semplicemente, il mondo sia più complesso di come tendiamo a rappresentarlo. Cina e Russia sono alleate: ma è pericoloso legare l’invasione russa in Ucraina alle pressioni cinesi su Taiwan. Indubbiamente, sono entrambe espressione di una visione muscolare della politica estera. Ma il compito di analisti e politici non è quello di unire queste crisi, quanto piuttosto il contrario.
Durante la Guerra fredda sono stati compiuti errori enormi di valutazione: abbiamo appoggiato gli squadroni della morte in America Latina perché anti-comunisti; abbiamo sostenuto mercenari e golpisti in Africa e dittatori in ogni continente per lo stesso motivo, con l’idea che fosse necessario bloccare a ogni costo e in ogni luogo l’avanzata di una super-potenza aggressiva e illiberale come l’Urss. Non fomentiamo oggi la stessa visione: non si aiuta Taiwan radicalizzandone la contrapposizione con Pechino, né si risolvono le troppe crisi puntando solo sul riarmo nostro e dei nostri alleati.
Nell’Africa sub-sahariana denunciamo l’espansione militare delle milizie russe, come parte di un disegno strumentale di potenza di Mosca. Lettura indubbiamente corretta, ma che non racconta le nostre pluridecennali responsabilità nella regione, ove le dinamiche postcoloniali e gli interessi tattici dei vari Paesi occidentali (Francia e Stati Uniti in primis) hanno sempre condizionato i tentativi di sviluppo e di pacificazione regionale. Cercare la pace è più di impedire l’aggressione grazie alla propria forza militare. Significa cercare di rimuovere le radici profonde dei conflitti e delle ostilità e spingere alleati e avversari alla moderazione delle proprie politiche, non già infiammarne gli estremismi.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato da Avvenire, che ringraziamo