di Marco Marazzi*
(WSC) Milano – A volte, politici e giornali amano ricorrere ad iperboli per attrarre l’attenzione su di sé, per raccogliere consenso o, semplicemente, più lettori. Per esempio, bollare il fenomeno dell’immigrazione dai paesi poveri del mondo come “invasione” è entrato a far parte del repertorio di politici e stampa di destra da tempo, sebbene appunto il significato del termine “invasione” non abbia alcuna attinenza con il fenomeno in questione. Descrivere il nostro rapporto con Bruxelles come “schiavitù” è un’altra iperbole senza alcun fondamento.
Seguendo la stessa logica, ad alcuni politici italiani piace ogni tanto usare il termine “colonizzazione” per mettere in guardia dagli investimenti fatti nel nostro paese da aziende cinesi o comunque con sede in Cina o legate alla Cina. Lo ha detto, ovviamente, Matteo Salvini (aggiungendo però che non voleva essere “colonizzato” nemmeno dalla Germania) ma l’hanno detto sorprendentemente anche politici e giornali di matrice “liberale” che di solito ci consigliano invece di adottare un metodo scientifico.
Ma è proprio vero? Direi di no.
Partiamo dalla definizione del termine. “Colonizzare” significa (Treccani) “ridurre a una colonia un territorio, un paese; fondarvi una colonia, o comunque stabilirvi insediamenti a scopo di sfruttamento economico e per introdurvi un diverso tipo di civiltà”. Un esempio di colonizzazione per restare sul tema Cina è stata la concessione italiana a Tianjin dei primi del 900 che è durata quasi 40 anni. La concessione aveva personalità giuridica, godeva dei diritti di possedere, di comprare, di vendere, di contrattare prestiti e essere anche rappresentata in giudizio. All’interno del territorio vigevano leggi diverse da quelle del resto della Cina, che non aveva giurisdizione su quanto ivi avvenisse.
Esistono territori del genere in Italia? Se si tralascia il discorso delle ambasciate e consolati che hanno un regime speciale direi di no. Non esiste quindi nessun avamposto di altro paese (men che meno la Cina) che abbia questa natura in Italia. Né se ne è mai parlato.
Può anche darsi però che chi usa questo termine si riferisca ad una situazione in cui le attività produttive del nostro paese o le più importanti infrastrutture sono controllate quasi interamente da aziende con sede in un paese diverso. Oppure una situazione in cui l’unico o quasi mercato di export o fornitore per il nostro paese è un certo paese straniero da cui quindi dipendiamo interamente.
Prendiamo questa definizione ed andiamo a guardare i dati degli investimenti diretti stranieri (IDE) in Italia, ovvero quegli investimenti fatti sotto forma di acquisizione di aziende o “greenfield” in attività produttive o di servizi. Non rientrano in questi gli acquisti di debito pubblico italiano da parte di soggetti stranieri.
1. Le aziende cinesi hanno investito nel nostro paese un totale di 15 miliardi di Euro. (a) Di questi circa metà sono stati per l’acquisizione della Pirelli (pneumatici) nel 2015 da parte di ChemChina, un’operazione che aveva una sua logica industriale ineccepibile visto che la Cina è il più grande mercato auto al mondo. Altre grandi operazioni hanno riguardato l’ingresso con il 35% (quota quindi di minoranza) da parte di State Grid in CDP Reti, e da parte di Shanghai Electric con il 40% in Ansaldo Energia (di nuovo, una quota di minoranza). Ultima ad essere arrivata in termini di dimensioni l’acquisizione di Candy (lavatrici) dal colosso Haier. Il resto si divide tra qualche decina di aziende e gruppi: spicca per esempio tra questi la Ferretti Yachts, società rilevata da Weichai Power nel 2013 che è riuscita a riportare il bilancio in positivo e ad aprirle nuovi mercati, l’acquisizione di Esaote da parte di un consorzio e la joint venture tra COSCO (la terza compagnia di navigazione al mondo) e la danese Maersk per il terminal di Vado Ligure. Si tratta perlopiù di investitori strategici; i fondi di private equity o venture capital cinesi infatti sono ancora molto concentrati sul mercato interno.
2. Per fare un paragone, gli investimenti diretti USA sono stimati in circa 36 miliardi di Euro al 2019 (b), cioè più del doppio. Per gli investimenti dal resto d’Europa le stime variano anche perché le cose si fanno più complesse data la presenza anche di fusioni come quella Luxottica-Essilor, ma la stessa AmCham parla di 80 miliardi per lo stock d’investimenti francesi in Italia e più di 100 miliardi per quelli tedeschi. Da convinto europeista non mi sorprendono le cifre tedesche o francesi, ma se si guarda agli investitori da fuori UE, la Cina non ha senz’altro assunto una postura “coloniale” o “predatoria” nei confronti delle nostre aziende. Anzi, negli ultimi anni gli investimenti dalla Cina sono calati (dell’11% l’anno scorso) complice la stretta valutaria del governo cinese ma anche la debolezza della nostra economia e i soliti problemi che tutti gli investitori fronteggiano: tasse alte, burocrazia, regole incerte e che cambiano spesso. Nel 2019 siamo stati solo la quinta destinazione di investimenti cinesi in Europa con meno di 700 milioni di euro, un’inezia. A dire il vero, negli anni passati il governo italiano è stato molto più preoccupato dell’uscita degli investitori stranieri (che ha riguardato anche alcune multinazionali).
Se dunque le aziende cinesi, negli anni d’oro in cui avevano ampie disponibilità economiche hanno destinato all’Italia una quota molto ridotta dei loro investimenti in Europa e ancora più piccola del totale degli investimenti esteri, lo faranno in una fase in cui hanno disponibilità economiche molto più ridotte a causa della crisi economica post-Covid (c)? Anche ammesso e non concesso che le aziende cinesi decidessero di raddoppiare la cifra investita finora, si arriverebbe sempre a meno del totale degli IDE americani e una frazione di quanto arriva dal resto d’Europa. Non proprio “colonizzazione”.
3) Guardando ai dati dell’interscambio commerciale, quello italiano è abbastanza diversificato: a fare la parte da leone sono di nuovo i nostri partner europei, del tutto logico se si considera che facciamo parte del mercato unico. Più del 50% del nostro interscambio è con il resto della UE e il rimanente si divide tra una lunga lista di paesi; le nostre esportazioni vanno veramente ovunque nel mondo. La Cina nel 2019 si è piazzata al terzo posto come fornitore (con meno della metà del volume tedesco), e al nono posto come mercato di esportazione, nota dolente perché Germania e Francia esportano molto di più in valori assoluti verso il Dragone. Anche qui, parlare di colonizzazione sembra mancare il bersaglio; più che altro, ci sarebbe spazio per esportare di più verso la Cina.
Andiamo poi a guardare gli investimenti in titoli di debito pubblico italiano che, se fossero in gran parte nelle mani di un solo paese, costituirebbe una forma di “dipendenza”. Anzitutto va notato che la quota di debito pubblico italiano detenuta dagli stranieri è intorno al 30%; il Tesoro non fornisce dati aggiornati sul breakdown per paese, ma un articolo dell’Espresso del 2019 evidenziava come la parte del leone la facessero appunto altri paesi UE (più dell’80%), mentre i paesi extra UE con più titoli italiani in pancia sono Giappone e USA. E’ vero, durante la visita dell’allora ministro dell’Economia Giovanni Tria in Cina nel 2018 si era parlato di investire di più nei titoli di debito pubblico italiano ma a quanto pare questo non è avvenuto. Potrebbe avvenire? Certo, ma nello scenario attuale di permanenza nell’area Euro è molto più probabile che i maggiori detentori di debito pubblico saranno sempre gli altri europei.
Per concludere, la protezione di asset strategici come difesa, infrastrutture critiche ed energia da acquirenti extra-UE è sacrosanta. Infatti, è già contemplata sia da regolamenti UE che dalla nuova ampliata disciplina italiana del Golden Power. Ma il vero problema dell’Italia – diciamocelo – è sempre stato che non attrae abbastanza investimenti stranieri, preferibilmente non quelli “mordi e fuggi” ma attuati da aziende che hanno piani a lungo termine. Con la Cina poi il problema non sembra assolutamente il rischio di “colonizzazione” ma semmai la mancanza di reciprocità in alcuni importanti settori e le difficoltà di accesso agli appalti pubblici cinesi. Per fare un esempio è difficile immaginare che a CDP Reti sarebbe possibile comprare anche solo il 10% di State Grid (che distribuisce l’energia in tutto il territorio cinese) o a Siemens il 40% di Shanghai Electric. E’ questo il vero squilibrio, non altro, ed è su questo che bisogna lavorare: è il momento giusto.
* Presidente e fondatore del think tank Easternational, è avvocato e partner presso Baker&McKenzie, dove si occupa di diritto societario e di commercio internazionale, con particolare focus sui paesi asiatici. Co-autore di “Intervista sulla Cina“
(a) Cifre Rhodium Group e MERICS.
(b) Cifre AmCham.
(c) La crescita 2020 è prevista a meno del 3%, la più bassa da qualche decennio.