di AntonGiulio de’ Robertis*
In queste settimane si è tornati a parlare di un libro sulla genesi della prima guerra mondiale di Christopher Clark: “I Sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra“. In esso i leader che portarono i loro paesi in guerra vengono definiti sonnambuli, cioè attori che incedevano irresistibilmente verso una meta di cui non erano pienamente consapevoli.
Il volume analizza la dinamica che portò allo scatenamento della Grande Guerra da parte di paesi le cui società, fino ai più alti vertici, rimasero legate fino all’ultimo al topos dell’improbabilità della degenerazione in un conflitto generale della pur grave crisi Austro-Serba.
Oggi la guerra russo-ucraina rischia di provocare una dinamica analoga perché per tutta la seconda metà del 900 e i primi decenni di questo secolo ha dominato la convinzione diffusa, cioè il topos, dell’impossibilità di un conflitto fra potenze dotate di armi nucleari per l’enormità delle distruzioni che essa comporterebbe e alle quali non sfuggirebbe neanche l’ipotetico vincitore.
Nel concludere la sua analisi sulla genesi della guerra che oppose le potenza dell’Intesa, Francia, Gran Bretagna e Russia a quelle della Triplice Alleanza, orbata dalla defezione dell’ Italia, Austria- Ungheria e Germania, Clark cita una frase emblematica del topos dell’improbabilità pronunciata nel 1936, sul balcone del municipio di Sarjevo, da Rebecca West, un’opinion leader del mondo anglosassone del suo tempo:
“Non capirò mai come sia potuto succedere”. Una frase che ribadiva, a distanza di più di vent’anni, quel topos dell’improbabilità di un conflitto globale in Europa, diffuso e largamente prevalente in tutti gli ambienti responsabili delle potenze che poi si trovarono coinvolte nella guerra.
In realtà, quella convinzione rimase dominante sia nei vertici politici che in quelli militari di quei paesi fino all’ultimatum di Vienna alla Serbia. Fino a quel momento quegli ambienti, pur dopo l’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando, conservando il loro ottimismo sugli sviluppi della crisi, non rinunciavano alla tradizionale pausa estiva, né alla routine degli scambi internazionali.
Il capo di stato maggiore tedesco Helmut von Moltke, per esempio, non interrompeva le sue cure termali a Carlsbad; il kaiser Guglielmo Secondo si metteva in viaggio per la Norvegia il 21 luglio in piena crisi, mostrando di escludere che potesse degenerare in un vasto conflitto.
Analogamente nel campo opposto il presidente francese Poincaré, di ritorno con il primo ministro Viviani dalla visita di stato in Russia, trovava fuori luogo l’aver richiamato in Francia alcune unità militari dal Marocco. Il primo ministro inglese Asquith si dedicava, invece, tutto il mese di luglio alla questione dell’Ulster. Assai meno ottimista, ma in sostanza preveggente, era invece un osservatore esterno assai autorevole come il colonnello House, ascoltato consigliere del presidente americano Wilson, al quale già nel maggio del ’14 faceva presente che la corsa degli Europei agli armamenti terrestri e navali avrebbe portato al conflitto.
E’ ben noto come la dichiarazione di guerra alla Serbia e la mobilitazione russa avviarono una dinamica di misure militari indifferibili per gli alti comandi dei due campi smentendo quel topos dell’improbabilità che aveva retto nonostante il perdurare e l’aggravarsi della crisi Austro-Serba.
A partire dal 1945 dopo l’impiego dell’ arma nucleare contro il Giappone si è diffusa una convinzione per un certo verso analoga a quella dell’improbabilità del primo novecento: è il topos dell’impossibilità della guerra nucleare.
Dopo le esplosioni di Hiroshima e Nagasaki esso si è imposto saldamente negli ambienti scientifici più responsabili, oltre che in quelli diplomatici e dell’alta politica, sino al culmine della celebre dichiarazione di Reagan e Gorbaciov a Ginevra nel 1985 che “la guerra nucleare non poteva essere vinta e non avrebbe dovuto essere mai combattuta”.
Sappiamo bene che il topos dell’improbabilità fu smentito dalla dinamica inarrestabile innestata dopo le misure militari dell’Austria e della Serbia, dalla determinazione di San Pietroburgo di impedire ad ogni costo la débacle della Serbia, avviando la mobilitazione delle proprie forze.
Uno sviluppo che a sua volta mise i militari tedeschi nella condizione di imporre come irrinunciabile per la sicurezza dell’impero l’avvio di analoghe misure preventive rispetto allo scontro su due fronti che si prospettava. Si trattò di una dinamica dettata dalla strategia militare al di là della preoccupazione per la pace delle autorità civili, che si trovarono nell’impossibilità di fare scelte ispirate appunto a quelle preoccupazioni.
Nella crisi Ucraina il topos che sembra tentennare è quello dell’impossibilità del conflitto nucleare anche se fin dal primo deflagrare della belligeranza il presidente americano ha escluso ogni ipotesi di intervento diretto di forze americane, proprio per evitare l’innesto di un’escalation che potesse sfociare in un confronto nucleare.
La complicazione rispetto a questa posizione lineare è la diversa modalità dell’impegno degli altri paesi NATO nel sostegno all’ “Ucraina aggredita”. Le forme e le dinamiche di questo sostegno si sono andate evolvendo in un’escalation continua di misure e forniture di mezzi che da difensivi hanno teso ad acquistare progressivamente caratteristiche offensive, con sviluppi i cui limiti vengono dichiarati indefiniti, così come indefinita rimane la potenziale risposta russa, anche se, a più riprese, Mosca non ha escluso il ricorso in estremo all’arma nucleare.
Ma al di là dell’andamento delle operazioni sul terreno e dell’avvicendarsi del tipo dei rifornimenti inviati a Kiev, nelle dichiarazioni dei alcuni leader occidentali sull’inaccettabilità della sconfitta dell’Ucraina ricompare l’attitudine della San Pietroburgo del 1914, che rifiutando a priori che la Serbia potesse essere écrasé diede il là a quelle misure che sfociarono nello scoppio della Grande Guerra.
Ipotizzare l’assenza di limiti nell’ assistenza all’Ucraina per impedirne la sconfitta e compiacersi dell’ambiguità strategica che ne deriva, implica l’adozione di un’analoga attitudine della controparte, la cui panoplia include anche l’arma nucleare.
Non può non esserci dunque la preoccupazione di evitare l’avvio dello stesso meccanismo inarrestabile del 1914, che spinse i leader europei ad entrare in guerra come sonnambuli. L’ipotesi di inserire nel teatro bellico ucraino unità militari di paesi atlantici accentuerebbe questo rischio aggiungendo un altro tassello a quella guerra mondiale a pezzi denunciata dal pontefice romano e rischierebbe di provocare malauguratamente la saldatura di quei pezzi in un aperto conflitto globale.
Indipendentemente dai compiti che questi contingenti potrebbero svolgere, se alcuni di essi cadessero sotto il fuoco russo si configurerebbe la situazione, sempre esclusa dal topos dell’impossibilità: lo scontro diretto fra forze russe e forze atlantiche, con il rischio di un’invocazione, magari forzata, dell’articolo 5 del patto atlantico e della totale obliterazione del topos dell’impossibilità.
In aggiunta a questi rischi vi è poi l’intenzione di avviare una vera e propria corsa agli armamenti in Europa. Una deriva che già nel primo novecento, come abbiamo visto, aveva indotto un acuto osservatore come il colonnello House a prevedere correttamente l’inevitabile scoppio della guerra, in aperta contraddizione con il topos dell’improbabilità allora dominante.
L’unica prospettiva di salvare la sopravvivenza del topos dell’impossibilità, e con esso forse anche quella del genere umano, è quella di rendere l’enunciazione ”evitare lo scontro nucleare” l’obiettivo prioritario nella gestione della crisi in corso, ponendo un chiaro limite a quell’ambiguità strategica con cui sembrano dilettarsi alcuni dei leader politici europei.
E’ una massima assai diffusa che “la storia è maestra di vita”. Perché la vita ne possa approfittare è però necessario che la lezione della storia venga compresa dai responsabili del nostro destino. In questo momento non sembra che ciò stia avvenendo.
*AntonGiulio de’ Robertis è membro dell’Advisory Board di Wall Street Cina