La storia di un piccolo imprenditore pugliese, che si è visto abusivamente revocare il fido. Che lo ha costretto a chiedere il fallimento.
La chiusura del rubinetto è l’immagine-simbolo di questi anni di crisi, costati la scomparsa di migliaia di aziende e di centinaia di migliaia di posti di lavoro. Protagoniste assolute le banche che, dopo aver prestato miliardi di euro agli amici degli amici, hanno invece revocato da un giorno all’altro i fidi alle piccole e medie imprese mandando in malora un intero sistema produttivo e le persone che vi stanno dietro e accanto. Una soluzione che ha contribuito ad aggravare la crisi senza peraltro portare grandi benefici ai conti delle stesse banche. Quello che però non si era ancora visto era una banca di credito cooperativo che a fronte di un credito esiguo, nell’ordine dei 50mila euro, si adopera in prima persona per far fallire un’impresa-cliente che versa in stato di temporanea difficoltà. Un’operazione evidentemente volta ad aggredire il patrimonio dell’impresa e che – diciamolo subito – non ha avuto successo, ma non è stata neanche sanzionata nonostante gli enormi danni prodotti. Un caso limite? Forse sì, ma merita di essere raccontato perché non riguarda solo il rapporto banca-imprenditore, ma anche il ruolo della Banca d’Italia e la linea di condotta del potere giudiziario che – almeno con riferimento ai reati di usura – sembra dipendere più dalla sensibilità e dalla preparazione delle singole procure che dall’effettivo esercizio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Come spiegare altrimenti le richieste di archiviazione avanzate dai pubblici ministeri nonostante il consulente tecnico della procura abbia accertato l’usura ai danni del cliente?
Ancora una volta accade in Puglia, nella provincia di Bari, dove le banche sembrano intoccabili. Ma andiamo per ordine: protagonista della vicenda è Felice Basile, un artigiano di Altamura attivo da più di trent’anni nel settore elettrotecnico con la sua ditta individuale. A fine 2012, come accaduto a moltissimi altri imprenditori, si è improvvisamente visto revocare il fido di conto corrente e di lì a poco la sua posizione è stata portata addirittura in sofferenza. “Un credito in sofferenza presuppone che l’azienda sia decotta e versi in uno stato di insolvenza o in uno stato persistente di instabilità patrimoniale e finanziaria, ma non era certo questo il mio caso – dice Basile – La banca ha revocato arbitrariamente e abusivamente il credito alla mia azienda e non si è limitata a quello: ha anche rifiutato, nonostante le reiterate richieste, di presentarmi un piano di rientro comprensivo di interessi e quant’altro. Volevano farmi fallire”. Da notare che si tratta della banca di Santeramo in Colle, un istituto di credito cooperativo che per vocazione e per statuto dovrebbe essere vicino al territorio e alle piccole imprese.
Invece già a fine marzo 2013 (cioè dopo solo tre mesi dalla revoca dei fidi e dalla chiusura del conto) il credito viene portato in sofferenza e la banca si rivolge al tribunale di Bari chiedendo il fallimento della ditta. Una richiesta pretestuosa, respinta dal tribunale in quanto, come si legge nella sentenza, “dagli atti depositati era risultato che, oltre all’inadempimento del credito vantato dalla ricorrente (la Bcc di Santeramo, ndr), non vi fossero altri fatti concretamente significativi ai fini della prova dell’insolvenza, quali la chiusura delle linee di credito da parte delle banche, la cessazione dei pagamenti, l’effettuazione di pagamenti con mezzi anomali, la pluralità di inadempimenti, gravi e ripetuti,protesti, atti ingiuntivi, procedure esecutive e altri fatti idonei a dimostrare l’esistenza di un patrimonio in dissesto”. Con queste motivazioni il tribunale ha respinto la richiesta della Bcc di Santeramo la quale, non soddisfatta, ha poi fatto ricorso in appello e ha nuovamente perso.
“E’ una cosa davvero incredibile – dice Basile – volevano farmi fallire a ogni costo, probabilmente per aggredire il mio patrimonio dato che gli unici creditori erano appunto la banca di Santeramo e la Banca popolare di Puglia e Basilicata con cui avevo un rapporto più che trentennale e con la quale avevo anche contratto diversi mutui per la casa di proprietà e per i locali in centro ad Altamura che stavo ristrutturando e che utilizzo per le mie attività”. Il patrimonio di Basile era di gran lunga superiore ai 53.400 euro per i quali la banca di Santeramo pretendeva di farlo fallire: “Il loro comportamento è stato di una violenza inaudita – continua Basile – sono riuscito a resistere e a evitare il fallimento grazie anche alla solidarietà e all’aiuto della mia famiglia, ho pagato al centesimo i fornitori, gli stipendi dei miei collaboratori e il loro Tfr, ma alla fine ho dovuto mettere in liquidazione la mia ditta dopo più di 30 anni di lavoro”. La Bcc di Santeramo in Colle aveva aderito nel 2012 al protocollo di intesa regionale contro il credit crunch, impegnandosi a sostenere le piccole e medie imprese: “Non solo si sono rifiutati di applicare il protocollo da loro stessi sottoscritto, ma mi hanno revocato il credito e chiuso il conto corrente per un fuori fido di 1.195,48 euro – prosegue Basile -. Nei miei confronti sono state messe in atto azioni sproporzionate e ingiustificate che ho denunciato alla Banca d’Italia e anche in sede penale. In particolare alla Banca d’Italia chiedevo di verificare la legittimità dei comportamenti della banca di Santeramo, che a mio avviso si qualificano come azioni estorsive del credito ai danni di una ditta individuale che in trent’anni di attività si è sempre comportata correttamente”.
La Banca d’Italia si è letteralmente “chiamata fuori” rispondendo a Basile che l’organo di vigilanza “non può interferire nelle decisioni in materia di erogazione del credito, rimesse alle valutazioni e alla responsabilità dei competenti organi aziendali” e che “per la soluzione delle controversie inerenti a rapporti di natura privatistica tra intermediari e clientela, prima di adire l’Autorità Giudiziaria, è possibile ricorrere in via stragiudiziale all’Arbitro Bancario Finanziario”. Poi, in calce alla risposta, il vicedirettore reggente della sede di Bari di Bankitalia informava Basile “che la citata banca è stata comunque invitata a fornire a questa Sede ragguagli su quanto segnalato e ad indirizzare alla S.V. un adeguato riscontro in merito alla questione segnalata, facendone tenere qui copia”. Era il dicembre 2014: da allora non risulta che la Bcc di Santeramo abbia dato riscontro, né che Bankitalia l’abbia sollecitata in tal senso.
Quanto alle azioni in sede penale, Basile ha presentato due esposti-querela nei confronti delle banche, esposti per i quali i pubblici ministeri della procura di Bari hanno chiesto l’archiviazione, nonostante il consulente tecnico della procura abbia accertato che nei confronti di Basile le banche abbiano anche praticato tassi superiori alla soglia d’usura. “Io continuo a battermi per otteneregiustizia, ma sembra di lottare contro i mulini a vento. A parole sono tutti per la legalità, scrivono libri, fanno dibattiti, ma poi nella pratica è tutta un’altra cosa”, conclude con amarezza l’imprenditore che in questi ultimi due anni ha dovuto davvero difendersi con le unghie e con i denti mentre era impegnato a riconvertire la sua attività dal settore elettrotecnico a quello più promettente delle energie alternative.
di Paolo Fior
Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Il Fatto Quotidiano