È dal 1989 che mi viene ripetuta sempre la stessa domanda: «E allora? La fine della storia?… X non smentisce forse la sua tesi?». X può essere un evento della politica internazionale, come un colpo di Stato in Perù o gli attentati dell’11 settembre, oppure una crisi finanziaria a Wall Street. Di solito, la domanda proviene da chi non ha capito il senso di fine della storia e non ha letto il mio libro La fine della storia e l’ultimo uomo, pubblicato nel 1992 (Rizzoli; edizione originale 1992).
Sono sempre convinto che il concetto rimane essenzialmente valido, anche se indubbiamente la fase attuale della politica mondiale non è più la stessa di quando scrivevo il mio articolo. Sarebbe strano che quasi trent’anni non avessero modificato il mio modo di pensare il mondo. Cionondimeno, è importante distinguere tra le critiche ragionevoli e quelle stupide, o fondate su una semplice mancanza di comprensione.
Cominciamo dal titolo dell’articolo originale La fine della storia?, pubblicato dalla rivista statunitense «The National Interest» e in francese da «Commentaire» nell’estate del 1989. Vi si utilizzano altri termini per descrivere il fenomeno che oggi sarebbe definito piuttosto «sviluppo» o «modernizzazione». La «fine» della storia indicava lo scopo o l’obiettivo, più che non la sua conclusione; la «fine della storia» poneva quindi la questione della finalità o del punto terminale dello sviluppo umano o del processo di modernizzazione.
L’espressione «la fine della storia» non era mia; è stata originariamente utilizzata in questo senso dal grande filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Hegel è stato il primo filosofo della storia, nel senso che non credeva possibile penetrare il pensiero o le società umane senza comprendere il contesto storico in cui esse s’inscrivono e il processo evolutivo che le ha prodotte. Karl Marx, autore della versione più celebre della fine della storia, ha ripreso lo stesso quadro storicista. Sosteneva che le società si modernizzano, evolvendo da uno stadio primitivo verso il capitalismo borghese passando per il feudalesimo. Per Marx, la fine della storia era lo stadio finale di tale processo, un’utopia comunista. Io mi accontentavo di sostenere, nel 1989, che non sembrava che saremmo un giorno pervenuti allo stadio finale del comunismo. Mikhail Gorbaciov, che aveva lanciato la perestrojka e la glasnost, stava trasformando l’Unione Sovietica in qualcosa di sempre più simile a una democrazia. In conseguenza, se fine della storia doveva esserci, sarebbe stata simile piuttosto a una democrazia liberale collegata a un’economia di mercato.
Il motore della modernizzazione descritto nel mio libro del 1992 era una versione molle della teoria della modernizzazione. Le società umane si sono sviluppate, ma tale processo non è una sorta di ascensore che va automaticamente verso l’alto. I progressi dipendono dalle contingenze e dal fattore umano; niente è inevitabile né predeterminato. Sostenevo tuttavia che la modernizzazione è un processo coerente che sembra fondamentalmente non differire da una cultura umana all’altra. Questo ha a che vedere con la natura della tecnica o con ciò che io chiamavo «il meccanismo». A un dato stadio della storia dell’umanità, le forme dominanti della tecnica determinano una frontiera delle possibilità di produzione che modellano la natura della vita economica. La forma dominante di organizzazione economica ha allora degli effetti critici sull’organizzazione sociale e finisce per plasmare le forme dell’organizzazione politica stessa. È così accaduto, per esempio, che le tecnologie di produzione del carbone, dell’acciaio e delle industrie di grande scala hanno stravolto l’antico ordine agricolo e imposto l’urbanizzazione e, al tempo stesso, livelli di istruzione più elevati. Le prime fasi della rivoluzione dell’informazione hanno messo termine al monopolio dell’informazione, che era nelle mani di diverse gerarchie, e favorito la mobilitazione orizzontale. L’aumento dei livelli di reddito ha allora generato un ceto medio che voleva partecipare alla vita politica. Questo spiega la correlazione relativamente stretta tra la ricchezza e la democrazia nel mondo.
Il decollo dell’Asia orientale è l’esempio più palese di uno sviluppo economico che conduce a una convergenza sociale. Dal Giappone alla Corea, da Taiwan alla Cina, è un’intera regione che si è industrializzata. In ciascuno di questi casi, le trasformazioni sociali prodotte da questo processo hanno comportato una convergenza con i Paesi occidentali: si è verificato un massiccio esodo rurale, abbiamo assistito a maggiori investimenti nell’istruzione e nel know-how, allo sviluppo di una classe media urbana e a una divisione del lavoro più complessa e interdipendente.
Nel caso del Giappone, della Corea del Sud e di Taiwan, c’è stata anche una convergenza politica. Con l’andare del tempo, ognuno di questi Paesi è diventato una democrazia liberale; gli ultimi due hanno operato la loro transizione negli anni Ottanta, allorché le rispettive società, che erano soprattutto agricole, sono diventate urbane e industriali. Il modello non è però universale. Singapore ha raggiunto un Pil pro capite superiore, in termini di potere d’acquisto, a quello degli Stati Uniti, ma è restato un’autocrazia elettorale liberale. La Cina ha conseguito adesso un livello di reddito paragonabile a quello di Taiwan e della Corea del Sud degli anni Ottanta, e sotto Xi Jinping è evoluta non verso una democrazia, ma verso una forma di dittatura più repressiva.
A parte il caso cinese, in questo quadro mancavano diversi elementi, che oggi comprendo molto meglio che nei primi anni Novanta. Il primo consiste nel sapere in quale modo la crescita economica si mette in moto. Una volta che ti trovavi nell’ascensore che saliva, andavi incontro a conseguenze sociali e politiche prevedibili; molte parti del mondo, però, sembravano sprofondare nella povertà, senza una realistica speranza di riprodurre il processo di crescita di Giappone, Corea e Cina.
Se questo genere di crescita non è diventato maggiormente universale, è a motivo dell’assenza di istituzioni, in particolare a motivo dell’assenza di uno Stato moderno. Se le società dell’Asia orientale si sono così bene sviluppate economicamente nel corso delle due generazioni precedenti, è perché si erano dotate di Stati moderni prima di confrontarsi con l’Occidente e non hanno così dovuto creare questo genere di istituzioni, mentre si dedicavano ai loro progetti di modernizzazione. Il secondo problema della mia formulazione del 1992 è strettamente connesso alla difficoltà di dar vita a Stati moderni: essi possono tanto svilupparsi quanto declinare, ossia regredire verso qualcosa di meno moderno.
La terza sfida è collegata al problema del peso delle élite nelle istituzioni dello Stato. In molte democrazie liberali contemporanee è largamente diffusa l’idea che le élite esistenti abbiano truccato il sistema a loro beneficio e vi si siano radicate talmente in profondità che la politica democratica ordinaria non basta più a snidarle.
L’inerzia o l’impasse politica che ne risulta inducono allora a reclamare un leader forte, capace di affrontare tali élite, anche a costo di scalzare il quadro istituzionale che definisce la democrazia liberale.
La quarta sfida alla mia ipotesi è quella sollevata da Samuel Huntington: la democrazia liberale è il prodotto della cultura occidentale e non un elemento inevitabile del processo di modernizzazione. In proposito, la Cina è di gran lunga la più grossa sfida alla narrazione della fine della storia, poiché si è modernizzata economicamente rimanendo una dittatura.
Ci si è domandati, per un certo tempo, se una simile società fosse veramente capace di innovare e non si sarebbe accontentata di copiare e inseguire le economie mondiali di testa. Ma oggi, con il suo immenso settore tecnologico in espansione, la Cina sorpassa i rivali occidentali in molti settori.
Resta la domanda sulla sostenibilità del modello. Nessuna società può essere giudicata sulle sue performance a breve termine e ci sono ragioni per credere che su questo Paese incombano delle gravi sfide per i prossimi anni. Esso ha potuto conservare gli elevati livelli di crescita degli ultimi anni facendo un largo ricorso all’indebitamento; se la Cina ha un tasso di risparmio ragguardevole, il suo debito netto non è però sostenibile. Il suo modello di crescita, basato su alti livelli di sviluppo delle infrastrutture, segna il passo; viene da domandarsi se tale modello possa essere esportato attraverso la nuova Via della Seta. La Cina ha privilegiato così a lungo la crescita economica da avvelenare il proprio ambiente naturale; se il governo ora tenta di disinquinare, non è sicuro che sarà in grado di risolvere l’insieme di questi problemi mantenendo lo stesso tasso di crescita.
Per finire, la legittimità del Partito comunista rimane molto dipendente dai suoi risultati. Il Paese non ha conosciuto gravi recessioni dal 1978, ma è inevitabile che vada incontro a pesanti difficoltà economiche, nella misura in cui cercherà di passare allo statuto di economia ad alto reddito. Come reagirà la nuova classe media dinanzi al perdurare della dominazione del partito durante una lunga recessione economica? Se nei prossimi anni la crescita della Cina proseguirà, serbando il suo posto di prima potenza economica del mondo, allora ammetterò che la mia tesi del 1992 sarà stata definitivamente confutata.
(traduzione di Pier Maria Mazzola)
Fonte: Corriere della Sera