di J.J. Gittes
(WSC) ROMA – Ho incontrato Chris Patten – l’ultimo Governatore di Hong Kong – nel mezzo del suo trasloco. Mentre i facchini impacchettavano i suo beni, ci ricevette davanti al camino (ovviamente solo decorativo), con un tè inglese servito su porcellana cinese. Era la combinazione preferita e ripetuta: una storia di successo cinese, guidata da regole inglesi.
Era il 1996, pochi mesi dopo l’isola di Hong Kong, la penisola di Kowloon e i Nuovi Territori tornavano alla Cina. Il Governatore rientrava in patria orgoglioso del suo lavoro e della formula geniale che Margareth Tatcher e Deng Xiaoping avevano inventato: one country, two systems.
Sembrava una magia: senza clangore, l’ex colonia tornava alle sue origini, cioè la Cina, mentre i suoi abitanti per 50 anni potevano condurre affari come avevano sempre fatto, mentre gli studenti, gli intellettuali, i giornalisti potevano godere di una libertà inedita.
Avrebbero anche potuto votare, non direttamente per il Governatore. Pechino non lo avrebbe permesso. D’altra parte nessuno aveva mai consultato i cittadini per l’elezione del Governatore. Il suffragio di una colonia coincideva con i voleri dei suoi padroni.
Patten era troppo intelligente per non saperlo. Quando gli chiesi se il futuro di Hong Kong sarebbe annegato in una dozzina di città simili lungo la costa, sorrise. Nel momento in cui paventai la banalizzazione della città nel vortice dello sviluppo cinese, mi diede una risposta ineccepibile: “Il peggio che possa capitare a Hong Kong è rimanere la città più ricca della Cina”.
Aveva ragione. I tempi si sono anzi ravvicinati. Il peggio è arrivato, ma HK mantiene un benessere ineguagliabile. Come è stato possibile? Perchè con questi modi e tempi?
Solo l’analisi, non lo schieramento, può cercare di capire. Vanno ricercate le responsabilità, in luogo di distribuire le colpe.
1 – continua