di Barbara Miccolupi
Marco Marazzi è il promotore di Easternational, il gruppo di lavoro che si propone di promuovere e facilitare i processi di integrazione economica tra Europa e Asia, tra cui rientra a pieno titolo il macroscopico progetto Belt and Road Initiative.
Esperto di diritto societario e commercio internazionale per la società Baker McKenzie e profondo conoscitore del mondo cinese, dove ha vissuto per 18 anni e dove ha ricoperto il ruolo di vice presidente della Camera di Commercio dell’Unione Europea di Shanghai, è tra i primi e più convinti sostenitori dell’importanza sul breve e lungo periodo della connessione economica tra i due grandi poli europeo e asiatico. Ci siamo rivolti a lui per comprendere meglio opportunità e limiti legati a questa riedizione in chiave moderna della Nuova via della Seta.
Cosa ha in mente la Cina per il futuro dell’economia globale?
“La Cina negli ultimi dieci anni è passata dall’essere uno dei Paesi che ricevevano più investimenti esteri a imporsi come uno dei maggiori esportatori di capitali. Un processo di going-out, per usare un termine tecnico, un’apertura verso l’esterno che è diventata un vero e proprio obiettivo politico: il presidente Xi Jinping vuole fare di questo progetto il suo lascito al mondo. Ma non stiamo parlando di un nuovo Piano Marshall, anche se certo anche la Raod and Belt Initiative ha un obiettivo geopolitico, ma allora si trattava di interventi più specifici e contestualizzati, qui invece sono in gioco piani a lungo termine, che hanno a che fare con quel macro-contintente chiamato Eurasia da dove arriverà la crescita del futuro. I cinesi si sono detti: ‘miglioriamo la connettività all’interno di quest’area’, con interventi infrastrutturali su porti, ferrovie, parchi logistici, vie di navigazione esistenti e nuove, e allo stesso tempo con investimenti sull’energia e la tecnologia, sviluppando anche quei Paesi che si trovano lungo del traiettorie interessate dal progetto”.
Quali sono le criticità legate alla Belt and Road Initiative?
“Inizialmente la Cina guardava al Sud-Est asiatico e all’Asia centrale, zone cioé dove pensa di avere influenza geopolitica, anche se con i piedi di piombo perché proprio in quelle aree sono in gioco questioni territoriali e politiche che riguardano le Isole e i confini contestati. Soprattutto in Asia centrale, nei cosiddetti “stan” (Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan, Kirghizistan), territori fortemente sottopopolati dove è forte il timore di un’espansione incontrollata dell’influenza cinese. Poi c’è la diffidenza della Russia e soprattutto dell’India, che lo vede prettamente come un piano geopolitico, ed è innegabile che la Cina si stia muovendo per occupare spazi lasciati liberi da altre potenze.
Come gli Stati Uniti?
“Certo, soprattutto dopo l’esito delle elezioni americane del 2016 e l’avvento di Donald Trump, con una linea di politica economica che lascia aperte le porte del mercato americano ma a determinate condizioni, mettendo ulteriormente alla prova il multilateralismo delle relazioni Usa-UE.”
E la posizione europea?
“Per l’Unione Europea ci sono due o tre conseguenze derivanti dal progetto Belt and Raod, perché se la Cina riesce ad acquisire più peso e importanza in alcune aree del mondo l’Europa, può perdere quei mercati del Sud-Est asiatico e dell’Asia centrale dove stava cercando di inserirsi, e ora si trova a dover fronteggiare il gigante cinese, capace di ‘mettere sul piatto’ decine di miliardi e indirettamente di tagliarci fuori, per il nostro peso politico inferiore. La seconda conseguenza riguarda l’aspetto infrastrutturale, molto importante perché le traiettorie ferroviarie e marittime che il progetto vuol rilanciare o potenziare – tra l’altro usando la propria sovrapproduzione interna di materie prime come l’acciaio – tocca Paesi all’interno della Ue o che stanno per entrarvi, come i Balcani, intersecandosi in alcuni casi con iniziative analoghe europee. Infine, va considerato il rischio di un peggioramento della bilancia commerciale europea verso la Cina.”
Ma per l’Europa può essere anche una grande occasione
“Questo è quello che crediamo noi, ma è più difficile far capire le opportunità che si presentano, piuttosto che evidenziare i rischi. I Paesi europei conoscono bene il progetto, Macron è andato in Cina e ne ha parlato ampiamente, rappresentando ovviamente gli interessi della Francia, così come ha fatto la Germania e l’Italia con Gentiloni. Ma restano dei punti da chiarire e la Cina deve spiegare se in tutti questi interventi che sta mettendo in campo ci sia un reale spazio di partecipazione per le aziende europee, ma temo non sia questa la visione della Cina…”
Perché?
“La strategia della Cina è piuttosto quella di dire ‘io vado in un Paese, faccio accordi col governo locale e ci mando le mie aziende, le mie maestranze e se possibile uso anche le mie materie prime per realizzare le opere’. Non vedo forti opportunità per ‘gli altri’, dipende da chi finanzia, se subentrano fondi al cui interno ci sono partner internazionali come l’Asian Infrastructure Investment Bank (57 Stati membri, tra cui anche l’Italia) allora sì che è possibile.”
Ci guadagnano soprattutto le loro aziende nazionali?
“Del resto abbiamo avuto anche noi a lungo una tradizione di aziende aiutate e protette dall’investimento di Stato, loro tutelano in primis le proprie aziende pubbliche, e questa infatti è una delle critiche mosse al progetto da quella componente di società cinese più smaliziata e liberale.”
L’Italia che ruolo gioca in tutto questo?
“Il nostro Paese si trova a essere un naturale sbocco geografico delle rotte interessate dalla Belt and Road Initiative, in particolare quelle marittime che passano sostanzialmente dal Canale di Suez, e soprattutto i porti del Nord Italia possono essere la strada d’accesso ai grandi mercati d’Europa, penso a Genova e Trieste, meno a quelli del Sud Italia.
Però la Cina si è portata avanti acquisendo il porto greco del Pireo?
“E anche del Nord Africa. Ecco perché è per essere concorrenziali e appetibili dobbiamo offrire un sistema integrato di trasporto che dagli scali faccia arrivare le merci velocemente e a costi vantaggiosi. Se sul piano marittimo siamo aiutati dalla geografia su quello ferroviario il discorso è più complesso e ci portiamo dietro delle carenze strutturali che possono pesare. C’è l’esperimento da poco inaugurato della tratta ferroviaria Mortara-Chengdu, ma non è ancora chiara la periodicità.”
Per noi c’è poi in gioco un cambio di Governo: può influire?
“A lungo nei confronti della Cina il nostro Paese ha avuto un atteggiamento di chiusura e diffidenza, se non un vero e proprio muro – non solo italiano – contro l’escalation delle esportazioni cinesi nel nostro Paese, la differenza di regole e la concorrenza sleale alla nostra imprenditoria, dimenticandoci che anche noi viviamo da sempre di esportazione, e che i momenti più bui li abbiamo avuto proprio quando ci siamo chiusi. Abbiamo figure di elevatissima professionalità che gestiscono in Cina gli interessi del nostro Paese, e la politica deve cercare di fare lo stesso e saper avere una visione di lungo termine per cogliere le occasioni che questa iniziativa pone.”
Il 2018 è anche “Anno del Turismo Italia Cina”: un aspetto che rientra nella Belt and Road?
“Il progetto di integrazione economica abbraccia una serie di settori che va ben oltre le infrastrutture, anche se qui si concentrano gli investimenti maggiori, e tocca l’ambito dell’energia, delle nuove tecnologie, la ricerca scientifica, ma anche la manifattura e senz’altro il turismo, e per la Sardegna proprio quest’ultimo può essere il tasto su cui puntare per attrarre il mercato cinese.”
Fonte: L’Unione Sarda
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