di Luca Geronico 
A Sochi entra in scena una inedita “Alleanza” fra Russia, Turchia e Iran che potrebbe ridisegnare gli equilibri di buona parte del Medio Oriente. Un futuro in cui Europa e Usa non sono coinvolti

Il vertice di oggi a Sochi servirà al Cremlino, “primus inter pares” fra Teheran e Ankara, a proclamare la sconfitta militare del Califfato islamico. Un passo concordato lunedì sera con Bashar el-Assad, che non incontrava Putin dal 21 ottobre del 2015, vale a dire poche settimane dopo il via libera di Mosca ai raid aerei sulla Siria (30 settembre 2015). Se la visita di due anni fa sul Mar Nero – la prima del raís all’estero dal 2011, anno di inizio della guerra civile – segnò la svolta militare contro il Daesh e contro l’opposizione interna al regime, il blitz diplomatico di lunedì sera potrebbe essere l’inizio della “restaurazione” post-Califfato.

Mentre la vittoria militare – in attesa della caduta dell’ultima ridotta di Abu Kamal lungo il confine tra Siria e Iraq – è evidente, a Sochi entra in scena una inedita “Alleanza” fra Russia, Turchia e Iran. Un «asse di ferro» preparato da gennaio nella serie di vertici ad Astana dove si è progettato il dopo Daesh che potrebbe, in prospettiva, ridisegnare gli equilibri di buona parte del Medio Oriente. Un futuro di cui Europa e Stati Uniti non sono minimamente parte: la telefonata di Trump a Putin di ieri è il “via libera” non solo al piano da superpotenza di Mosca nella regione, ma anche al disinteresse di Washington e all’irrilevanza dell’Europa.

Con forza, invece, è la «Mezzaluna sciita» a entrare in gioco, capace di portare le sue milizie a Mosul in Iraq, come a Raqqa in Siria, e di saldarsi – sciiti siriani e iracheni – proprio al confine siro-iracheno che corre alla periferia di Abu Kamal. Teheran come potenza regionale, per garantire sul terreno una “pax siriana” benedetta dal Cremlino. E accettata da Erdogan capace, con una giravolta, di scordare la crisi del novembre del 2015 dopo l’abbattimento del jet russo che aveva sconfinato dalla Siria. Due anni lunghissimi, con la questione curda in grado di promuovere rivoluzioni copernicane di alleanze. Le Forze democratiche siriane, in gran parte curdi che sognano un “Rojava” autonomo, rischiano la stessa sorte dei peshmerga iracheni: nessuna potenza le appoggerà. Una spartizione che cancella ogni opposizione che non sia accetta al regime, compreso il mai sopito irredentismo sunnita e con l’Onu a fare da arbitro, con dossier su crimini di guerra mai andati in giudizio, di una partita già giocata. Sarà una Siria spartita in campi di interesse più forti di vecchi confini che tutti conoscono ma nessuno rispetta più.

Fonte: Avvenire

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Nel 2011 l’inizio delle proteste nel Paese guidato da Bashar al-Assad, poi scaturite in una sanguinosa guerra civile. Da allora si contano centinaia di migliaia di vittime e milioni di rifugiati. Tutti i numeri chiave dello scontro nel Paese mediorientale

Il conflitto in Siria, che in seguito al presunto attacco chimico sulla provincia di Idlib ha conosciuto una nuova fase con l’attacco missilistico americano, si protrae ormai da sei anni. Solo l’attacco di martedì 4 aprile ha ucciso 86 persone, fra cui numerosi bambini.

Le origini – Le forze in campo sono molteplici, fra attori statali e non statali. Intervenuti su quella che inizialmente è stata definita come una guerra civile e che da tempo è innegabilmente qualcosa di più. Dapprima sollevazione popolare sulla scia della Primavera araba contro un regime repressivo, quello di Bashar al-Assad. La prima repressione violenta delle forze governative risale al marzo del 2011. Da allora le opposizioni di Assad si sono organizzate in gruppi armati di diversa estrazione, islamiste e non. Fra questi si è inserito anche il gruppo terroristico dell’Isis. Numerose potenze mondiali sono intervenute, successivamente, per favorire o contrastare l’azione di tali gruppi di opposizione al presidente Assad.

I morti – In questi sei anni di guerra i morti sono stati centinaia di migliaia. Secondo l’Osservatorio dei diritti umani in Siria, una delle fonti più citate per tracciare il bollettino delle vittime del conflitto, sono 465mila i morti dall’inizio del conflitto (al 13 marzo 2017). Fra questi, 96.073 sarebbero le vittime civili, di cui 17.411 minori e 10.847 donne. Un’altra organizzazione umanitaria, il Syrian network for human rights, ha pubblicato un report (in data 18 marzo 2017) nel quale il bilancio delle morti civili sale a 206.923 ( di cui 24.799 bambini). Secondo quest’ultima fonte, il governo siriano, con l’appoggio della Russia e l’Iran, sarebbe responsabile del 94% di tali morti. L’Isis avrebbe ucciso 3.352 civili, meno del 2% del totale; la Coalizione internazionale (cui fanno parte gli Usa) 945. Già nel febbraio 2016, però, il Syrian Centre for Policy Research aveva calcolato un numero di morti complessive superiori a 470mila.

Gli attacchi chimici – Sebbene gli attacchi con gas sarin siano molto rari (l’unico precedente verificato in Siria risale al 2013 presso Damasco, l’Onu non ha attribuito il responsabile) altri agenti chimici sono stati utilizzati molto spesso sul suolo di guerra siriano. Secondo il Syrian network for human rights dall’inizio del 2017 gli attacchi chimici sono stati non meno di nove. In precedenza, un report Onu dell’Organisation for the Prohibition of Chemical Weapons-United Nations (OPCW) ha appurato che tra il 24 settembre 2015 e il 10 febbraio 2016, sono stati perpetrati sette attacchi chimici, tre dei quali ad opera di Assad e uno “firmato” dall’Isis.

Rifugiati e sfollati – Com’è divenuto drammaticamente evidente anche agli occhi degli europei nell’estate del 2015, la guerra in Siria ha provocato un esodo di massa di persone in fuga dal conflitto. Secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari il numero dei rifugiati che hanno cercato riparo fuori dai confini del Paese (soprattutto in Turchia) sono 5 milioni. Gli sfollati interni, invece, 6,3 milioni e il loro numero ha iniziato a scendere.

Assistenza umanitaria – Le persone che necessitano assistenza umanitaria in Siria, sempre secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, sono 13,5 milioni. Un piano di risposta umanitaria dell’organizzazione punta a raccogliere 3,4 miliardi di dollari per fronteggiare la crisi.