1. «Non è stata la globalizzazione a creare i problemi che attanagliano il mondo. (…) È vero non è perfetta, ma non c’è motivo per abbandonarla»1.
Approdato tra le nevi di Davos, lo scorso 17 gennaio il presidente cinese si è speso in un’apologia appassionata del sistema economico internazionale, ossia dell’impero statunitense.
Asceso per la prima volta alle vette del capitalismo, Xi Jinping ha scenograficamente riaffermato la propria adesione al Washington consensus, di cui la Repubblica Popolare è socio di minoranza. Massimo riconoscimento dell’egemonia americana, tuttora impareggiata.
Sostrato di tanta superiorità è il dominio degli oceani da parte della Marina Usa, scaturigine dell’attuale periodo storico e costante inscalfibile di un mondo che pure ci appare in transizione.
Cui si aggiunge l’eccezionale profondità del mercato statunitense, conseguenza di una elevata disciplina sociale e della capacità di assimilare immigrati giovani e spietati. Unita a uno spiccato afflato universalistico, necessario per creare dipendenza tra il centro e la periferia del globo e conferire scientifica direzione alla propria traiettoria geopolitica.
Caratteristiche tipiche di una struttura imperiale, indotta a esprimere deficit commerciale e debito pubblico per mantenere a sé legati i soggetti inseriti nella propria costellazione. Tra questi la Cina che, lungi dal possedere alcun potere di ricatto, intrattiene con gli Stati Uniti una classica relazione di subalternità.
Eppure, come già capitato nel corso della storia, il peso connesso al dominio globale grava soprattutto sulle classi medio-basse della nazione imperiale. Sicché in questa fase l’America pare mossa da rapsodica pulsione revisionistica, apparentemente determinata a rinnegare l’oneroso ruolo di custode dello status quo.
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Fonte: Limes
nerio
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