di Marco Marazzi, Advisory Board Kissinger*
(WSC) ROMA – La società Huawei Technologies Co., Ltd, di Shenzhen, semplicemente conosciuta come “Huawei” è da qualche anno una delle vittime principali della guerra tecnologica tra USA e Cina. Con un’Europa presa “in mezzo” e incapace di avere una posizione ufficiale su una questione di tale rilevanza, in Italia si sono create le due solite tifoserie: quella “a stelle e strisce” che dà per buono e scontato qualsiasi cosa l’amministrazione e la stampa USA dicano o abbiano detto su Huawei. E quella “anti-stelle e strisce” che ritiene infondate tutte le accuse mosse, solo perché di matrice americana.
Come per tutto ciò che riguarda la Cina da un po’ di tempo cercare di fare chiarezza in questo scambio di accuse e contro accuse, è impresa molto ardua ma opportuna. Il caso Huawei merita di essere studiato ed approfondito da tutti, soprattutto da chi prenderà decisioni importanti, perché da una parte dimostra quanto di sbagliato possa esserci in alcune delle accuse contro il colosso telecom cinese, d’altro canto la vicenda indica quanto il governo di Pechino non stia aiutando granché Huawei a risolvere i suoi problemi.
Partiamo dalle accuse americane, molteplici e sintetizzate nell’articolo È giusto che l’Italia entri nel 5G senza usare la tecnologia cinese pubblicato l’11 luglio su Il Sole 24 Ore a firma Robert Atkinson, economista dal doppio passaporto canadese e statunitense, presidente della Information Technology and Innovation Foundation, un think tank con sede a Washington.
La prima accusa è che Huawei sia “legata al governo cinese”. A questa l’azienda ha sempre risposto rivelando una struttura societaria peculiare che vede la maggior parte del capitale nelle mani di circa 100.000 tra i suoi 190.000 dipendenti. L’amministrazione USA risponde che anche se Huawei non è una azienda di stato, è controllata di fatto dallo stato. In che modo? Perché il governo cinese a vari livelli ha sostenuto la società nella sua storia con sussidi, sgravi fiscali e terreni a basso costo, per un totale che varia a seconda di chi lo calcola, e poi perché alcune delle banche che la finanziano sono di proprietà statale.
Il problema è che se vogliamo definire una società di un qualsiasi paese “controllata dallo Stato” perché ha ricevuto sussidi statali, finiremmo per farvi rientrare anche molte aziende europee ed americane. Facciamo solo due nomi, oggetto di controversie molto note al WTO proprio sul tema dei sussidi ricevuti: Airbus e Boeing. Per non parlare poi di società italiane o francesi, per indicare i più noti “offenders”, che hanno ricevuto o ricevono aiuti di stato.
Per quanto riguarda poi i finanziamenti commerciali ricevuti da banche cinesi, si dà il caso che quasi tutte le banche cinesi siano di proprietà pubblica, e che finanziano non solo aziende cinesi ma anche in maniera crescente aziende e gruppi stranieri, sulla base di condizioni di mercato. Non sembra essere un elemento sufficiente per stabilire che una determinata azienda sia quindi “controllata” da Pechino. Negli ultimi anni Huawei ha conquistato quote di mercato estero puntando molto sui suoi prodotti frutto di R&S per la quale ha speso quasi 14 miliardi solo nel 2018.
La seconda accusa è più complessa: secondo l’amministrazione USA, il problema sono le reti 5G. che sono così sofisticate e richiedono software aggiornati di continuo e “controllati dal fornitore del sistema” il che rende più facile per un governo straniero “spiare” i dati e le informazioni. Quindi va bene Huawei ma non per il 5G.
Sul punto, va ricordato che la guerra a Huawei in USA è iniziata ben prima del 5G, quando la società si limitava a rifornire di apparecchiature abbastanza standard piccoli network americani.
Per quanto riguarda poi il 5G, non solo la stessa Huawei ma vari governi europei (per esempio quello inglese) e non più tardi di qualche mese fa anche una testata non certo filo-Pechino (The Economist) hanno osservato che in realtà non sono mai state identificate “back door” che consentono un ingresso indisturbato di entità esterne nei sistemi della rete stessa per carpirne i dati, e non si è mai verificato alcun “breach” né recente né in passato in relazione a sistemi Huwaei.
Roba da ingegneri certo, dove esistono opinioni diverse e quindi è possibile trovare un esperto che dica che i sistemi Huawei sono potenzialmente suscettibili a questi “ingressi non autorizzati”, come chi dice il contrario; ma la cosa curiosa è che tutti sembrano escludere che sistemi forniti da altri fornitori potrebbero avere gli stessi “buchi” a cui malintenzionati potrebbero accedere.
Detto questo, l’Italia con il Decreto Cybersicurezza del 2019 si è già dotata di una linea di difesa che dà al governo la possibilità di bloccare operazioni che riguardano reti informatiche o di telecomunicazioni se ci sono rischi per la sicurezza nazionale. Purtroppo però il decreto fa differenza tra fornitori intra-UE e extra-UE, un approccio discutibile se è vero che si tratta di sicurezza.
La terza accusa parte da premesse parzialmente vere ma arriva a conclusioni sbagliate: secondo questa, Huawei (così come altre società cinesi del settore) sarebbero state favorite impropriamente dal governo cinese e dalle società di telecomunicazioni cinesi a discapito dei concorrenti stranieri, al fine di costruire dei “campioni” nazionali.
E qui c’è un fondo di verità: negli anni ’90 il mercato cinese per i sistemi di telecomunicazioni era letteralmente dominato da aziende straniere, da Nokia (che per un breve momento è stata anche la prima azienda venditrice di cellulari in Cina) a Ericsson, a Cisco, Alcatel-Lucent e molte altre.
Dagli anni 2000 in poi, alcuni player cinesi hanno cominciato a farsi strada, prima sul mercato locale puntando a zone del paese meno interessanti per i fornitori stranieri, poi avventurandosi all’estero nei paesi dove c’era necessità di sistemi a buon mercato semplici da installare e da utilizzare.
Il “sistema paese” cinese si è mosso, e si è mosso con una forte determinazione e la potenza di fuoco che può dedicarvi, e nel caso dei sistemi per telecomunicazione ha avuto quel successo che invece non ha riscontrato per esempio nel settore automobilistico, dove non è riuscita a creare veri “campioni” nazionali o globali.
E’ vero che nel far questo sono state in parte ostacolate di fatto le aziende straniere che prima dominavano il mercato, come spiegato nel recente Position Paper della Camera di Commercio UE-Cina, per esempio.
Ma è anche vero che lamentele sul protezionismo locale, sugli ostacoli posti ad aziende straniere non sono dirette solo alla Cina: paesi come il Giappone e soprattutto l’India si sono trovati spesso sul banco degli imputati, senza però pare che le loro aziende ne abbiano risentito o siano state ostacolate come “ritorsione” in USA o in Europa.
Detto questo, il tema della reciprocità è fondamentale ma appunto va affrontato in maniera coerente e omogenea con qualsiasi interlocutore. A volte però può portare a situazioni paradossali se è vero che una delle lamentele delle aziende straniere (specie nel settore finanziario) è quella di non poter trasferire dati di clienti raccolti in Cina su server fuori dal paese. E’ bene anche chiarirsi prima su cosa vogliamo noi.
Lasciamo da parte il riferimento di Atkinson al fatto che “i cinesi” (messa proprio così, in generale…) hanno fatto contraffazione di prodotti italiani, che c’entra poco o niente, e veniamo invece all’ultimo importante capitolo d’accusa.
Nel 2017 il governo cinese ha adottato una nuova legge sull’intelligence nazionale che prevede agli articoli 7 e 14 il dovere dei cittadini e delle “organizzazioni” (termine con il quale di solito in diritto cinese si intendono anche le aziende) di cooperare con lo stato nelle attività di intelligence, ove richiesto, “in accordo con la legge” e di mantenere il segreto su tali attività. E’ legittimo chiedersi quali sono gli effetti pratici di questa normativa. Si estende anche alle aziende che operano all’estero? Una società può rifiutarsi di cooperare nelle attività di intelligence? Con quali conseguenze? E si sta parlando solo di informazioni rilevanti per la sicurezza nazionale? E’ vero, leggi simili esistono anche in altri paesi, ma Pechino sarebbe di aiuto alle aziende cinesi che operano in settori sensibili se chiarisse nero su bianco i limiti di questa legge e della sua applicazione: è possibile che queste spiegazioni verranno ascoltate con poca attenzione in alcune capitali occidentali, ma non in tutte.
*Marco Marazzi, avvocato internazionalista, è membro dell’Advisory Board di Kissinger.